Mishima, kamikaze della bellezza

La ricerca della spada con cui lo scrittore si uccise nel 1970 è il filo conduttore della biografia di Christopher Ross. Un’indagine che mette a nudo la psicologia di un uomo e di un Paese

Mishima, kamikaze della bellezza

Nel coltivare se stessi, non esiste la parola “fine”. Chi si ritiene completo, in realtà, ha voltato le spalle alla Via.
Yamamoto Tsunetomo, da Hagakure.

Prima notizia. Pochi giorni fa, a Tokio sono stati trovati cinque cadaveri in un’automobile. Un gruppo di amici fra i 19 e i 37 anni. Gli ennesimi suicidi collettivi con stufetta a carbone. In Giappone, è l’ultima moda. Ormai gente che faccia seppuku alla maniera dei samurai non se ne trova più.

Seconda notizia. I kamikaze, durante la seconda guerra mondiale, mentre si gettavano sul nemico non urlavano «Tenno Heika Banzai!», «Lunga vita a sua maestà imperiale!». No, urlavano «Ka-san’!», «Mamma!». Parola del signor Sasakawa, ex kamikaze (come si fa a essere un ex kamikaze? basta essere un kamikaze fallito...).

Terza notizia. La spada con cui Mishima Yukio, il 25 novembre 1970, si squarciò l’addome non è custodita da un suo sodale del Tate no Kai, la «Società dello scudo» da lui creata, sorta di esercito personale composta da ragazzotti affascinati dal grande scrittore. No, quella spada la tiene in salotto un poliziotto in pensione.

La prima notizia riportata è un’Ansa del 9 marzo scorso. Le altre due sono contenute in un libro-inchiesta di Christopher Ross. Britannico, vive in Francia, parla benissimo il giapponese, ha il pallino delle arti marziali e si è messo in testa l’idea, romantica quanto pericolosa (visto che si è attirato addosso l’attenzione dei mafiosi della yakuza), di rintracciare La spada di Mishima (Guanda, pagg. 284, euro 17, traduzione di Stefano Beretta, da domani in libreria). L’ha trovata? Sì e no...

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«In piedi alla finestra/ attendevo ogni sera/ accadimenti abnormi./ Spiavo presagi infausti,/ una tempesta di sabbia/ che si levasse oltre la strada,/ un notturno arcobaleno». È una poesia giovanile di Mishima. Quell’anelito ai «presagi infausti» non lo abbandonerà mai, sarà per lui il marchio di fabbrica, la cifra estetica. Nelle parole, cioè nei libri, e nei fatti, che culminarono nell’atto finale inscenato nella caserma di Tokyo dove il suo tentativo di colpo di Stato per pochi intimi finì in tragedia (e anche, a sentire i cinici detrattori, in burletta...). Parlando di Confessioni di una maschera, il suo romanzo più noto e secondo molti il più bello, disse: «Questo libro è il mio messaggio di addio al regno della morte in cui ho vissuto. Scrivere questo libro è stato per me un suicidio al contrario».

Uno che a 24 anni, il 25 novembre 1948, comincia a scrivere il proprio testamento spirituale non è normale. Infatti. Ma la normalità non è dei grandi. O meglio, non lo è la normalità «normale». Invece la «normalità» zen dei samurai, quella illustrata da Yamamoto Tsunetomo (1659-1721) in Hagakure, il libro più amato da Mishima, è un’altra cosa: la cieca fedeltà al proprio signore, la compassione, la soppressione di ogni germe di superbia. Non un’aura medietas, ma, al contrario, il chiodo fisso di una missione impossibile: vivere morendo. «Senza pensare al trionfo o alla disfatta - scrive Yamamoto - e andare semplicemente incontro alla morte come un folle, senza por tempo in mezzo; così, ci si desta dal sogno». E ancora: «Yasuda Ukyo ha detto che l’ultimo bicchiere di sake è determinante. Parlando di una vita, vale lo stesso principio: la fine è determinante».

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Bene ha fatto, dunque, Ross a partire dalla fine, come fece, oltre vent’anni fa, Henry Scott Stokes nella sua storica biografia di Mishima. Bene ha fatto a scandire l’esistenza di questo «aspirante guerriero confinato in un’epoca di pace» con ritmo incalzante e sincopato, in un puzzle di frammenti che s’incastrano con efficacia narrativa e documentale nonostante debba fare i conti con un muro non diremo di omertà, ma almeno di impacciato pudore. «In Giappone - scrive l’autore - l’interesse per Mishima è nascosto, un vizio privato. Implica lo studio di qualcosa di oscuro e perturbante, un’attività a cui è meglio dedicarsi in privato e che si nega con forza. Come la masturbazione».

La causa di questo atteggiamento pare essere più l’omosessualità dichiarata dell’«oggetto» in questione che le sue posizioni estreme maturate negli ultimi anni. Del resto l’imperialismo mishimiano era una categoria dello spirito, un ideale, non tanto una posizione politica calata nelle opportunità (e negli opportunismi...) della storia. «La personalità individuale del sovrano - dichiarò in un colloquio con Furubayashi Takashi - è un problema secondario, tutto dovrebbe ritornare ad Amaterasu Okinami», cioè alla dea del sole di cui l’imperatore in quanto tale, secondo la religione shintoista, è il diretto discendente.

Tuttavia, anche sul fronte sempre scottante, a ogni latitudine, del sesso, il Nostro, al di là dei costumi banalmente «scandalosi» (la passione per i ragazzi atletici, il masochismo...), riserva interessanti sorprese. Si dice che i gay siano gli uomini che meglio conoscono l’animo femminile. Ed è vero. Ma qui, nell’opera di Mishima, la donna è addirittura scarnificata, sezionata. La Sonoko delle Confessioni, la Setsuko di Una virtù vacillante (ultima edizione SE, pagg. 144, euro 18, traduzione di Lydia Origlia), la signora Kaburagi e la Yoko di Colori proibiti, la Reiko di Musica, per fare cinque esempi, vengono passate ai raggi X in funzione di, o in contrapposizione con, i vari Kochan, Tsuchiya, Yuichi, Kazunori. E, se restano donne oggetto, lo sono in un panorama di uomini oggetto. Tutti sono oggetti, strumenti di una ricerca metafisica. La ricerca della bellezza e della morte, che nella filosofia di Mishima coincidono.

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Il Kochan delle Confessioni parla come un vero samurai, anzi, come un ronin, un samurai disoccupato a causa della pace imperante: «Quello ch’io avrei voluto era morire in mezzo a estranei, indisturbato, sotto un cielo sgombro di nuvole \ una morte simile a quella del volpacchiotto, non ancora ben pratico di astuzie, che va errando sbadatamente su un viottolo montano ed è colpito dal cacciatore a causa della sua stupidità...». E, quando dal cielo piovono gli opuscoletti con le proposte per la resa del Giappone agli Stati Uniti, pensa con angoscia che gli toccherà «cominciare quella “vita quotidiana” d’un membro dell’umano consorzio».

È la stessa sensazione di smarrimento che prova il monaco Mizoguchi, il quale si è dato un compito che in un personaggio di Dostoevskij sarebbe il trionfo del nichilismo, mentre qui vuol essere la rigenerazione nella distruzione: bruciare Il padiglione d’oro (questo il titolo del romanzo, ispirato a un fatto di cronaca, verificatosi nel 1950) del santuario dove vive. Se tutta la bellezza del mondo è lì, in quella presenza ieratica e sublime, si chiede Mizoguchi, che cosa resta agli altri? Nulla. «Finché ero prigioniero senza scampo della bellezza, come avrei potuto tendere le mani verso la vita? Forse era anche giusto che la bellezza m’imponesse una rinuncia.

Non è possibile sfiorare con una mano l’eternità e con l’altra la vita».
Con la mano che scrisse queste parole, una mano tesa a chiedere aiuto, Mishima Yukio il 25 novembre 1970 impugnerà la spada. E darà un taglio netto alla propria morte.

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