Laura Cesaretti
da Roma
Si augura un voto «condiviso da tutti», il ministro della Difesa Arturo Parisi. «Soprattutto allinterno della maggioranza», naturalmente, ma anche «dal Parlamento» nel suo complesso. Ed è lauspicio di Prodi e di tutto il suo governo, quello di ottenere sulla futura missione militare in Libano un consenso largamente bipartisan, con lavallo delle principali forze di opposizione. Per questo, da subito, i leader dellUnione consultati dal premier sono stati daccordo sul fatto che stavolta, a differenza ad esempio del voto sullAfghanistan, la fiducia deve essere esclusa.
Una linea difesa in questa occasione anche dal segretario di Rifondazione Franco Giordano, che durante il tormentato mese di dilaniamenti sulla missione afghana ebbe in casa propria i guai più grossi, e che per domare gli ultrà pacifisti interni insistette col premier perché mettesse la fiducia. Ma stavolta, assicurano dal Prc, «sarà diverso». Coi dissidenti si userà una linea più dura: niente alibi, chi vuol votare contro si assume le proprie responsabilità e «si mette da solo fuori dal partito». Ma stavolta i dissidenti «saranno meno, e non avranno molti appigli: se Hezbollah sta con lOnu, ci staranno anche loro». Il perché nessuno lo ammette esplicitamente, nella sinistra e nel resto dellUnione, ma traspare dal tono di molte dichiarazioni: non solo cè la copertura delle Nazioni Unite (quella cera anche sullAfghanistan, ma contò assai poco), cè anche e soprattutto la curvatura anti-Israele che viene data agli scopi della missione militare in Libano. Basta leggere le analisi del ministro degli Esteri Massimo DAlema per coglierla: i suoi duri giudizi sugli «errori del governo Olmert», colpevole a suo dire di aver «scatenato questa offensiva di scarso significato militare e di disastroso impatto politico»; la condanna della «politica di durezza, di aggressione, di negazione dei diritti dei palestinesi» di Tel Aviv; lassenza di ogni critica a Hezbollah, per coglierla. Una linea che certo nasce anche da una naturale predisposizione filo-araba del ministro, ma che è mirata ad offrire alla sinistra (e anche a settori cattolici) della sua coalizione una versione condivisibile del perché, questa volta, una spedizione militare in un teatro bellico deve essere benvenuta e condivisa. Con la convinzione che tra il mal di pancia pacifista e quello anti-israeliano finirà per prevalere il secondo.
E infatti il riflesso condizionato scatta subito: il responsabile esteri del Pdci, Jacopo Venier, spiega il suo nuovo afflato militarista col fatto che «l'esperienza passata, proprio in Libano a Sabra e Chatila, dimostra che senza una forza internazionale a garanzia dei civili c'è il rischio di massacri per mano israeliana». E tanto perché risulti ben chiaro chi è il nemico, aggiunge: «L'Italia deve insistere perché l'Onu invii subito una forza simile anche a Gaza».
Il capogruppo di Rifondazione al Senato, Giovanni Russo Spena, elenca le condizioni che la sinistra radicale pone per dare via libera alla missione: innanzitutto «regole d'ingaggio chiare e vincolate al compito di tutela del territorio, dei confini e della popolazione». E poi deve essere «certo» che la missione sarà «equidistante tra le parti», altrimenti «non sarebbe ammissibile». Condizioni «già previste» dal governo, pensa Russo Spena, «e dunque siamo convinti che si procederà con la completa unità della coalizione». E se questo sarà il quadro, «ogni dissenso sarebbe inspiegabile e non potremmo che leggerlo in un'ottica strumentale che per noi è inaccettabile».
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