Cultura e Spettacoli

Mister Socrate, la tattica di lasciar giocare gli altri

Un saggio di Giancristiano Desiderio sul gioco come filosofia di vita contro i totalitarismi

Nel corso di un anno, lo stadio Olimpico di Roma è stato chiuso per ben cinque volte. Un vero record: non esiste al mondo uno stadio più squalificato. Altrove i fenomeni di violenza e intolleranza razziale negli stadi sono stati affrontati inasprendo le pene. E a quanto sembra, pare che funzioni. E se funziona altrove, non si vede perché mai non debba funzionare anche in Italia.
Eppure ci sarebbe un altro rimedio, per contrastare la violenza e il razzismo negli stadi. Meno cruento delle misure repressive di ordine pubblico. Ma altrettanto efficace. Solo che i suoi effetti non sono immediati. Ma che farsene - direte voi - di un vaccino che riproduce gli anticorpi immunizzanti quando l’organismo è ormai irrimediabilmente devastato dal contagio?
No, il rimedio di cui adesso vi parlo non va considerato in alternativa alle leggi di pubblica sicurezza. Questa necessaria terapia d’urto andrebbe però accompagnata ad una terapia «a lungo decorso», diciamo così. L’antidoto di «lunga durata» - direbbero gli storici - è la filosofia. Il vaccino va ricercato nel vecchio Socrate. Che nel 399 avanti Cristo, nella sua Atene giocò la partita più drammatica nella storia del pensiero occidentale. È questa memorabile partita che bisognerebbe raccontare a quei ragazzi che nelle curve dei nostri stadi esibiscono terrificanti simbologie di morte.
Quale partita si giocò ad Atene nel 399 avanti Cristo? Una partita della vita. Rappresentata da un processo e da una condanna a morte. Imputato Socrate. Accusato ingiustamente di corruzione dei giovani e di ateismo. E poco prima di morire, il vecchio Socrate si rivolge ai suoi concittadini con queste parole: «ma nel provvedere al proprio miglioramento».
Socrate mette la sua vita in gioco per mostrare che, nonostante l’evidenza della realtà, la morte non può prevalere sulla vita. Perché la morte si presenta a ciascuno di noi sempre da sola. Nessuno, infatti, può morire al posto mio. Mentre la vita, a partire già dal suo concepimento, per manifestarsi non può fare a meno degli altri. Ha bisogno dell’amore materno. Ha bisogno della cura paterna. Ha bisogno dell’affetto degli altri. E del conflitto con gli altri.
La vita, come il gioco del calcio ci ricorda Giancristiano Desiderio con Socrate in campo. Saggio sul gioco della vita (Limina, pagg. 112, euro 13,50), è pluralità. Senza la pluralità - quella pluralità che le ideologie totalitarie e razziste hanno cercato di negare - non ci sarebbe la libertà. E senza la libertà, non sarebbe possibile neanche il gioco. Sia il gioco della nostra vita, sia il gioco del calcio. Senza gli altri, non sarebbe immaginabile neanche la libertà dei singoli. Ciascuno di noi, infatti, può giocare con gli altri o contro gli altri. Ma senza gli altri - come dice Socrate e ci insegna il calcio - è impossibile giocare. Le ideologie totalitarie questa elementare regola del gioco non l’avevano compresa. Non a caso, sia Hitler che Stalin non amavano il calcio. Nel 1942, in seguito alla imprevista sconfitta della Germania per 3 a 2 contro la Svezia, il calcio nel Terzo Reich venne abolito. Perché era un gioco in cui «entrava in gioco» troppo la libertà. E pertanto, non si lasciava addomesticare dalla violenza totalitaria. Mi domando se quei ragazzi che nelle varie curve nord e sud dei nostri stadi inneggiano al comunismo o al nazismo, lo amino davvero il calcio.


giuseppecantarano@libero.it

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