Fra la prima e la Seconda guerra mondiale la letteratura del ’900 si arricchì di uno scrittore di cui, tranne l’opera, si ignorava tutto: il vero nome, la vera nazionalità, i lineamenti, persino il sesso... Si faceva chiamare B. Traven, ma c’era chi sosteneva che il cognome fosse Feige, o Torvan, o Marut, o Croves, che fosse statunitense di lingua tedesca, o scandinavo nato per caso a Chicago, o tedesco emigrato in Centro America... C’era anche chi riteneva che i cognomi in fondo non significassero nulla, ma fossero il tragico e l’epico di cui erano intessuti i suoi romanzi a dare la giusta indicazione e che quindi in realtà Traven fosse Jack London, dato per morto e invece in qualche modo risuscitato, Ambrose Bierce, dato per scomparso in Messico, Arthur Cravan, dato per scomparso in mare... Sulla base della completa assenza di figure femminili nei suoi libri, ci fu infine anche chi teorizzò che B. Traven fosse una donna, Esperanza López Mateos, curatrice dei suoi diritti d’autore. Il fatto che fosse apparsa sulla scena una ventina d’anni dopo i primi grandi successi, quando lei era cioè ancora una bambina, e Traven avesse continuato a pubblicare anche dopo che lei era morta, venne considerato ininfluente. In fondo i misteri sono tali perché non li si può spiegare.
Nato nel 1882, oppure nel 1890, Traven morì nel 1969, quasi novantenne o quasi ottantenne: il suo ultimo libro, Il canale, era uscito con scarso successo nove anni prima, ma alla fine degli anni Quaranta si era verificato il vero ritorno di fiamma in popolarità e quindi il riaccendersi dell’interesse intorno alla sua identità. Era successo che John Huston aveva ridotto per lo schermo Il tesoro della Sierra Madre (1927), affidando il ruolo di Dobbs, il vagabondo con l’ossessione del denaro, a Humprey Bogart e il film era divenuto un caso. Quelle vite miserabili, l’avidità che le animava, il rancore, l’odio, l’istinto omicida e insieme la banalità del male, la filosofica rassegnazione con cui gli assassini divenivano a loro volta vittime, viravano l’esistenza al nero e non consentivano più né eroi né ideali. Finita la propaganda bellica, il cinema si riprendeva i propri diritti e il romantico Rick di Casablanca poteva permettersi di divenire Dobbs la carogna...
Prima del Tesoro della Sierra madre, Traven aveva pubblicato, nel 1926, La nave morta, l’altro suo romanzo più letto, più citato e più venduto. Raccontava l’odissea di Gerard Gales, marinaio americano lasciato a terra dalla sua nave, salpata mentre dormiva ubriaco in una casa di piacere. Senza soldi, senza documenti, Gales diveniva un paria, uno che ufficialmente non esiste più: finiva per imbarcarsi su una «nave morta», come venivano chiamate quelle bagnarole destinate all’affondamento da armatori privi di scrupoli, imbarcazioni fantasma per uomini fantasma, obbligati ad andare per mare non potendo più scendere a terra...
Un po’ tutti i romanzi di Traven, da Il ponte della giungla a Speroni nella polvere, per citarne ancora due, oscillano intorno ai temi che Il tesoro della Sierra Madre e La nave morta prendevano di petto: la burocrazia occhiuta degli Stati e l’anarchia violenta dei singoli, il destino miserabile di chi non ha santi in paradiso, il rifiuto delle regole borghesi ma anche delle parole d’ordine delle ideologie allora di gran moda. «Coloro che fino a quel momento essi avevano considerato fratelli proletari, diventavano naturalmente nemici dai quali bisognava guardarsi. Fino a che non avevano posseduto nulla di valore, erano stati schiavi della fame. Ora tutto era cambiato. Avevano ormai varcato il confine oltre il quale un uomo diventa schiavo dei propri beni». Forte di una militanza anarco-socialista nella Germania dei moti spartachisti e dei Corpi franchi, preludio a Weimar e poi a Hitler, Traven si era fatto un’idea senza illusioni sul genere umano e capitalismo e bolscevismo gli erano sembrate alla fine le due facce di un’identica medaglia, la schiavitù del singolo nel nome del denaro o di una dottrina politica, il mercato o il partito unico come padroni incontrastati contro i quali l’unica resistenza possibile era l’arte della fuga: non farsi trovare, non rendersi complici. Anche su questo si basava il suo rifiuto di un’identità come scrittore: «La biografia di un autore non ha nessuna importanza. Se non si capisce chi è l’uomo dalle sue opere, o l’uomo non vale niente o ha scritto soltanto roba da niente». E ancora: «Io sono un artigiano, un lavoratore come tanti. Scrivo invece di cuocere il pane o fare altro. La mia vita appartiene a me, l’opera al pubblico».
Su questa curiosa quanto affascinante figura, oggi in Italia pressoché dimenticata e che pure editorialmente varrebbe la pena ritirar fuori, Vittorio Giacopini ha scritto un saggio interessante, L’arte dell’inganno (Fandango, pagg. 280, euro 16): l’inganno della Letteratura, l’inganno della Politica. Giacopini è uno specialista in biografie, come dire, apocrife, che sono qualcosa di più e di meglio di una biografia romanzata, perché costruite sull’empatia ma anche sul gusto dell’invenzione e della narrazione, con un lavoro intelligente di assemblaggio, ma anche di notazioni e gusti personali. Nel caso in questione nuoce forse a L’arte dell’inganno un eccesso febbrile, nel senso di uno stile a volte troppo eccitato perché troppo partecipe nella ricerca di una qualsivoglia motivazione ideologica, il che fa perdere a Giacopini un punto importante della vicenda Traven. Non si chiede infatti come e perché un romanziere così anarchico nel suo rifiuto delle istituzioni e delle convenzioni fosse in realtà riuscito a condurre un’esistenza che gli aveva permesso di aver ragione di entrambe. Paradossalmente, Traven non è uno scrittore senza identità, ma uno scrittore il quale, in possesso di un’identità reale (se così non fosse non potrebbe viaggiare, avere documenti, stipulare contratti, sposarsi eccetera), riesce a renderla inesistente e non pubblica.
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