Il mito di Jeff Buckley poeta del rock bruciato dalla vita

A dieci anni dalla morte il libro «Dark Angel» ricorda il cantautore annegato nel Mississippi

Il mito di Jeff Buckley poeta del rock bruciato dalla vita

Dieci anni non sono bastati a svelare i perché della morte di Jeff Buckley, tuffatosi nel Mississippi, il 29 maggio 1997, e rapito da un vortice senza scampo. Lo ripescarono dopo otto giorni, gonfio, livido, sfatto. «Il mondo gira in tondo in eterno/ t’addormenti tra la sabbia e l’oceano», aveva scritto tre anni prima, e quel distico fu letto come un vaticinio. Così come l’altro, su un «orizzonte rosso fiammante/ che reclama i nostri nomi»: il tramonto rosseggiava, quando Buckley si calò nel grande fiume, forse per gioco, forse per desolazione, dopo un pomeriggio speso ad ascoltare i Led Zeppelin al liquido controcanto dell’acqua. Se fu suicidio o disgrazia la storia non dice. La spiegazione più estemporanea, e dunque più seducente, la fornì la sorellastra, Ann Marie: «Dovunque sia, è tornato a riunirsi con suo padre». Che era Tim Buckley, cantore ispirato e visionario non meno del figlio.
In omaggio al suo istinto errabondo Tim aveva abbandonato la moglie, Mary, quando lei aveva diciott’anni e Jeff aspettava di nascere. Era il giugno ’66: al nascituro il fuggiasco dedicò una strofa feroce, prevedendolo «fasciato di storie amare e mal di cuore/ mendico d’un sorriso». Jeff crebbe nel rimpianto, nell’adorazione inconscia, nell’astio consapevole verso quel padre transfuga. Tim fu ucciso dalla droga a ventott’anni, suo figlio annegò che ne aveva trenta: entrambi «strappati come pagine dal libro dell’esistenza», aveva previsto Jeff, e accomunati dalla morte precoce, come accade a chi è caro agli dei, o a chi ha vissuto un’esistenza ardua per protrarsi oltre. Quella di Jeff, come quella di Tim, bruciò in fretta nell’arrancare verso il successo e nell’esercizio d’una scrittura febbricitante, segnata da Chopin, Mendelssohn, Rilke, Neruda, Lorca, Ginsberg, Poe: dal cui esempio la sua musica e la sua poesia prendono forma come «pura goccia di suono in un oceano di rumore», dirà Bono, U2.
È a quella poesia che rende omaggio Dark angel, bel libro dell’Arcana dove una carrellata di foto ci riporta il volto angelico di Jeff e il suo sguardo da naufragio, mentre a commentare quel «canto demodé, vibrato e lirico», quella fragilità da sradicato, quell’essere insieme «guerra e tregua, cattolicesimo e voodoo, Leopardi e Laforgue, poli opposti in collisione», si prodigano Giulio Casale e Luca Moccafighe, con lapidari interventi di Brad Pitt, Elvis Costello, Ben Harper, Capossela, Morgan. Guerra e tregua, appunto, in un’esistenza tanto ferita dal mestiere di vivere quanto ubriacata dal sogno: tant’è che «feci vino dall’albero di lillà/ ho messo il mio cuore nella ricetta/ mi fa vedere quello che voglio vedere», canta Buckley in Lilac wine. Ma i sogni dileguano, la consapevolezza rimonta. Riconoscendosi «troppo giovane per tenere duro/ troppo vecchio per svincolarmi e fuggire», al sognatore non resta che ammettere: «La vita eterna è ormai sulle mie tracce/ ho la mia bara rossa e sfolgorante/ mi serve solo un ultimo chiodo».
Ed ecco affacciarsi la vocazione profetica dei poeti, quale probabilmente Buckley non fu e quale forse sarebbe diventato se fosse vissuto più a lungo. Lo scenario della sua morte s’annuncia già in Dream brother, è il ’94 ed ecco che «la luna chiede di restare/ fino a vedermi portato via dalle nuvole in volo/ il momento è giunto, morire non mi spaventa». Jeff è dunque pronto a far vela verso l’affollata Spoon River del rock. Certo è arduo distinguere, in quel preconscio «non mi spaventa», tra la premonizione rassegnata e l’inconfessata speranza, ma è facile intuirvi l’incombere d’un destino già scritto, la nozione di un’esistenza ridotta a «stati di devastazione che bruciano per giorni, giorni e giorni». Non ci sono balsami: né l’amore («una lacrima dentro la mia anima eterna») né la fede («dov’è l’amore nel cui nome il tuo profeta parlò?/ A me sembra solo una cella per un condannato a morte») offrono risposte alle domande che la vita affastella.

Irrisolvibili come quelle annunciate dall’amatissimo Dylan, al quale - quasi chiosando Blowin’ in the wind - Buckley pare rifarsi quando ammette che «non c’è più tempo per l’odio/ solo domande: dov’è l’amore, dov’è la felicità, dov’è la vita, dov’è la pace?». E la risposta non venne. Quando la meteora di Jeff Buckley si spense, toccò a Joni Mitchell salutarne il brevissimo transito come «una scintilla che sfreccia nel cielo della notte, verso uno strano posto».

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica