È uno dei pilastri del sovranismo, specie se declinato all'italiana: essere padroni in casa propria vuol dire recuperare una banca centrale da usare a proprio uso e consumo. Per fare cosa? Per esempio stampare moneta fin quando serve. In Italia succedeva in un passato non così lontano, per la precisione fino al 1981, quando la Banca d'Italia era obbligata a comprare i titoli emessi dal Tesoro. Per i più critici è il modello «venezuelano», seguito da Chavez e compagni, in grado di avere conseguenze inflazionistiche del tipo di quelle verificatesi a Caracas e dintorni (e simili a quelle italiane di qualche decennio fa).
Ma secondo la teoria economica insegnata nelle università di tutto il mondo è proprio il nocciolo del sovranismo monetario a essere illusorio: gestire in proprio una banca centrale non vuol dire essere liberi di fare una politica sganciata dai vincoli esterni. Anzi. Come ricorda Leonardo Becchetti, docente di Economia politica a Tor Vergata, in un libro appena pubblicato per Rizzoli (Neuroscettici) una delle motivazioni di chi, come l'allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, spinse per l'entrata nell'euro fu proprio quella di far sedere un italiano nel comitato esecutivo della Bce, in modo che il nostro Paese potesse finalmente contribuire alle scelte monetarie, in prima battuta sull'andamento dei tassi. E quello che hanno fatto i connazionali che si sono succeduti nell'incarico, Tommaso Padoa-Schioppa e poi Lorenzo Bini Smaghi, fino alla presidenza di Mario Draghi, che ha stabilito una linea di azione di fronte alla quale il rappresentante della potenza tedesca Jens Weidmann si è quasi sempre trovato all'opposizione. Un paradosso, se si pensa a quello che succedeva prima dell'euro, quando l'Italia era costretta ad andare a ruota di tedeschi (soprattutto), di fatto senza alcuna speranza di influenzare le decisioni che di volta in volta venivano prese.
Il tema (quello di una Banca centrale autonoma, che però è costretta ad adeguarsi alle decisioni altrui) non è immediatamente intuitivo ma si spiega con quella che gli economisti chiamano «legge della parità scoperta dei tassi di interesse». Di che cosa si tratta?
Il punto di partenza è che le differenze nel tasso di interesse tra due Paesi sono legate al differenziale di rischio e alle aspettative di variazioni del tasso di cambio. Se ai tempi della lira si voleva attirare un investitore indeciso tra l'acquisto di titoli tedeschi o italiani, bisognava garantirgli un rendimento un po' più alto. Era il compenso per il maggior rischio (noi italiani non abbiamo mai avuto la fama di buoni pagatori) e per la costante perdita di valore della lira rispetto al marco (nel 1960 la nostra valuta ricevette un premio come moneta più stabile del mondo, ma salvo questo breve e aureo periodo la regola è sempre stata quella della svalutazione). Se poi la Germania, per sue questioni interne, magari la tradizionale paura dell'inflazione così diffusa a Nord delle Alpi, decideva di alzare i tassi di interesse, all'Italia non restava che adeguarsi, alzando di conseguenza i suoi, salvo subire un pericoloso deflusso di risorse finanziarie. La conseguenza del rialzo dei tassi, era, come ovvio, un aumento nel costo di prestiti alle imprese e alle famiglie.
La legge è valida nelle condizioni descritte sopra: quelle in cui è possibile trasferire capitali da un paese all'altro ed è da notare che neppure il più sfegatato sovranista si è mai sognato di proporre l'introduzione di barriere al flusso dei capitali, come quelli in vigore tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.
Il risultato, come scrive Becchetti nel libro già citato, è che «anche se con la sovranità monetaria pensiamo di essere
liberi in realtà non lo siamo affatto... viviamo in mercati finanziari globalmente integrati, e dunque un Paese come il nostro non può che seguire le mosse dei grandi, non avendo nessuna voce in capitolo per co-determinarle».
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