
Ho comprato un iPhone nuovo a mia figlia e ho deciso di raccontarvi questa storia, perché ho scoperto che è accaduto a tanti. Non di comprare un iPhone nuovo, state a sentire. Fase uno: entusiasmo. Fase due: trasferimento dati. Fase tre: “Papà, non mi ricordo la password dell’account iCloud”, e lì parte la missione suicida. In teoria Apple è quella cosa per cui tutto “funziona da solo”, in pratica appena un account finisce bloccato comincia un incubo kafkiano in 4K.
Per tre volte sbagliamo la password (su consiglio dell’assistenza, tra l’altro, nel telefono di mia figlia da remoto, con la freccetta pilotata dall’assistente che ti dice cosa fare, perché se clicca lui può vedere i tuoi dati, e non vuole vedere niente, per la privacy, ok) e il sistema decide che per la “mia sicurezza” dobbiamo restare fuori per 24 ore. Come se uno dimenticasse le chiavi di casa e il portiere dicesse: “Tranquillo, per proteggerti, ti chiudiamo fuori fino a domani”.
Il giorno dopo richiamiamo, io e la mia compagna, con i tre iPhone, il Mac aperto, pure gli iPad e un block-notes, non si sa mai, tutto pronto. Secondo assistente, per carità: molto gentile, molto preparato, molto fiducioso, molto Apple style: “Vi dà sei giorni, ma in realtà è solo un placeholder. Domani vi si sblocca tutto”. Aspettiamo altre 24 ore e l’indomani non si sblocca un cavolo. Quindi richiamiamo di nuovo, nuovo operatore, nuova voce calma, nuovo muro: il blocco è reale, dura sei giorni, e nessuno può fare nulla.
Il collega precedente? Ha sbagliato. Quasi ci scusano per averci dato speranza, come se la colpa fosse nostra per averci creduto. E poi arriva la perla, non rara perché parlando con mi miei amici ho scoperto che è un incubo comune: “Mi raccomando”, ci dice l’ultimo operatore, “non usate nessun dispositivo collegato all’account di vostra figlia. Nemmeno il telefono vecchio. Altrimenti si rischia la perdita totale dell’account.”
Capito? Per sei giorni non solo devi aspettare, ma devi astenerci dal toccare qualsiasi cosa, come se il solo gesto di usare un dispositivo Apple potesse innescare l’autodistruzione dell’identità digitale di tua figlia, come se, per proteggerti da un incendio, ti dicessero di non respirare, come se avessi in casa una bomba sensibile al Wi-Fi e l’unica raccomandazione fosse: “non guardatela troppo”.
E la cosa assurda è che l’assistenza Apple è seria, la migliore: quando ti devono cambiare un prodotto, lo cambiano, quando c’è un problema tecnico, lo risolvono. Sono cortesi, preparati, professionali. Eppure, in questo caso, non hanno accesso al sistema. Il sistema è blindato, immodificabile, inaccessibile. Nemmeno loro possono fare niente, e lo dicono chiaramente.
Il paradosso è questo: l’account è mio, il telefono è mio, i dati sono miei, però non posso dimostrare chi sono, né autorizzare nulla. Ti trattano come se tu fossi un ladro che cerca di accedere a se stesso, e nessuno può aiutarti, non per cattiveria, ma perché non possono. Sono bloccati quanto te, forse di più. La verità è che siamo entrati nell’era delle tecnologie padrone, in cui tu non sei più il proprietario di niente, solo il custode di un’identità digitale gestita da un algoritmo che ti protegge dai tuoi stessi dati.
Se la sicurezza consiste
nell’essere murati fuori dal proprio mondo digitale, preferisco il pericolo. O almeno, lasciatemi scegliere da chi voglio essere fregato: da mia figlia che dimentica la password, o da Apple che mi dice “lo facciamo per lei”.