La moda ruba il palco al rock I dannati ora sono in passerella

I miliardi, il successo, gli applausi. Il pubblico che ti osanna. Il palco è lì, sulla passerella. È lì che appaiono e scompaiono le nuove rock star, che vivono fra luci, abiti, paillettes, tacchi altissimi, borsette che costano come un anno di stipendio. E poi feste, soldi, copertine, trasgressione, che a volte si chiama droga, a volte è un tarlo che ti scava dentro e non ti lascia più, a volte è un folle che prende il posto del destino. È successo così a Gianni Versace, rivoluzionario dello stile, ucciso sulle scale di casa sua: la maledizione della moda comincia da lì, da un sogno che si è spezzato all’improvviso, un giorno d’estate del 1997. Allora Miami Beach ha mostrato il suo volto cattivo e il mondo delle passerelle ha perso la patina della perfezione, ma ha acquistato il pathos della tragedia.
Sono passati quasi tredici anni da quel giorno e la moda piange un’altra rock star, un’altra maledizione che non si può portare. Alexander McQueen lo chiamavano l’hooligan, il genio, il talento. Anarchico, provocatore, enfant terrible come già definirono Franco Moschino, anche lui scomparso troppo presto, a quarantatré anni. McQueen ne aveva quaranta. Lui si prendeva questi appellativi da poeta maudit, si presentava in passerella come il protagonista dello show, irriverente, sicuro di sé, acclamato, irrequieto. Alexander McQueen faceva sognare come i ribelli di Woodstock o del grunge, anche se lui viveva a Mayfair; poteva arrivare a una serata in kilt o con la camicia azzurra da bravo ragazzo, l’anima nera se la portava dietro, l’etichetta del dannato. Ogni epoca ha i suoi ribelli e ora sono loro: stilisti e modelle. I poeti maledetti sono nascosti nei libri, gli attori di Hollywood sono dei manager, le rock star si preoccupano più dell’ecologia e degli yacht che di far sognare i fan con le loro vite turbolente. Sesso droga e rock’n’roll, roba da dinosauri.
Oggi le vite impossibili sono quelle dei designer e delle bellissime che sfilano: giovani, meravigliosi, senza regole. Oltre la normalità, sempre. Dive come Kate Moss, amata e dissoluta e ancora più inseguita dopo ogni scandalo: risse, droga, un fidanzato drogato da prendere lasciare e rilasciare, feste infinite, l’incubo costante dell’anoressia. Kate che viene soprannominata Cocaine Kate perché la beccano a sniffare, e dopo qualche mese è eletta «modella dell’anno». Kate che dice: «Nulla ti fa sentire più felice nella vita che essere pelle e ossa». Ha contratti milionari gira con gli stivaloni nel fango, alimenta il suo mito bravata dopo bravata, picchia un fotografo e il mondo sbava. Felice che le ossa spuntino dai vestiti? Forse fa solo parte del gioco, sconvolgere la borghesia, fuggire la normalità perché è banalità, il peggiore dei mali. Runway, passerella somiglia tanto a runaway, scappare via. Lontano.
E a volte le stelle della moda si rifugiano in un mondo lontanissimo, che nulla ha più a che fare coi miliardi, la fantasia, i lustrini. È una realtà che non luccica, è il lato oscuro della maledizione, quello che ti fa pagare il prezzo più alto. È il dolore che divora un quarantenne che dalla vita ha avuto tutto, e poi prende una corda e si impicca: una fine atroce, cruda, incomprensibile. Così è morta anche la modella coreana Daul Kim. Aveva vent’anni, era la musa di Karl Lagerfeld, era bellissima. Si è impiccata in casa sua a Parigi tre mesi fa. Scriveva sul suo blog: «La mia vita è misera e solitaria... Devo imparare a non distruggermi più, a non essere più dura con me stessa».
Daul si portava il peso insopportabile di un’anima, forse di un mondo. È difficile essere idoli normali, il pubblico ha fame di altro. Lo sapeva anche Ruslana Korshunova, un viso d’angelo finito su tutte le riviste di moda più importanti. Ventun anni da compiere, un bell’appartamento nella zona sud di Manhattan, una carriera sfolgorante. L’hanno trovata sul marciapiede, un corpo senza vita: si è buttata dalla finestra di casa sua, nel giugno del 2008. Allora amici e colleghi sono rimasti sbigottiti: «Sembrava una fata, era felice». Vivere come una rock star fa paura, magari. Ma ha un fascino irresistibile. Oggi più che mai: il bello e dannato ha il conto in banca che straripa, l’uovo Fabergé di Kate Moss per nascondere la cocaina, i flash dei fotografi, le interviste. Il ribelle che vince non finisce mai nel dimenticatoio: Naomi Campbell è la diva che non tramonta, ogni sua intemperanza è un successo, trasforma i lavori socialmente utili in uno show, colleziona fidanzati ricchi e famosi. Naomi, Kate sono star maledette, ma fino a un certo punto. Ci sono colleghe meno fortunate, come Karen Mulder, che era una «top» e poi, dopo cliniche, riabilitazioni e una carriera interrotta, è finita in manette: perseguitava la chirurga estetica che non l’aveva resa abbastanza bella. Un’accusa banale, stalking: ma la prigione era in un quartiere chic di Parigi.
Così gira il palco. Sopra e sotto. Le modelle inseguono i calciatori come le groupie assediavano i musicisti famosi: dalla passerella alla poltroncina riservata allo stadio, fra le altre fidanzate dei giocatori. O magari «ragazza» della squadra, come Vanessa Perroncel: è per la storia con lei che Terry ha perso la fascia di capitano dell’Inghilterra. Tanto gossip e poca gloria.
Talentuosi, anarchici, passionali, ribelli: la moda regala tutti i sogni.

Male che vada, basterà una nuova collezione di vestiti per alimentare l’illusione di una vita fuori dagli schemi. E pazienza se bisogna pagare, anche solo per apparire. Non tutti sono rock star, non tutti sono maledetti con stile.

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