Molestie verbali, risarcimento da 250mila euro

L’uomo già condannato in Appello, è chiamato a riparare i danni psicologici e materiali inferti alla ragazza

Alessia Marani

Molestata a vent’anni dal suo datore di lavoro di 63, ora chiede all’uomo, già condannato in primo grado con sentenza confermata in Appello, un risarcimento danni per 250mila euro. È la prima volta in Italia che la vittima di una violenza «atipica», fatta di palpeggiamenti e soprattutto di pesanti apprezzamenti sessuali particolarmente «volgari e lascive» chiede il conto per i problemi di natura psicologica e materiale che ne ha ricevuto.
«Un calvario di anni - come racconta lei stessa, romana, oggi 27enne, di professione montatrice cinematografica -. Anni in cui quell’uomo è stato il mio incubo fisso. E ancora oggi l’idea di doverlo rivedere in tribunale mi dà i brividi. All’epoca ero poco più che una ragazzina, alla ricerca del primo lavoretto dopo la scuola superiore. Lui poteva essere mio nonno, ha una figlia di qualche anno più grande di me. Sono rimasta scioccata. Ho avuto difficoltà immense a instaurare nuove relazioni, problemi col ragazzo d’allora, per non parlare del terrore di ripresentarmi a un colloquio di lavoro. L’ho denunciato, ho avuto paura che mi seguisse, che potesse farmi del male per ritorsione. Ho pensato pure a quello che è successo a Deborah Rizzato, l’operaia 25enne di Biella perseguitata e alla fine uccisa dall’aguzzino che la violentò quand’era ancora adolescente. Ma lo rifarei. Perché una persona così, capace di frantumare in pochi istanti i sogni e il disincanto di una ventenne, non deve farla franca».
Ada (è un nome di fantasia) il 12 settembre del ’98 si reca all’aeroporto di Ciampino per sostenere un colloquio con F. T. all’epoca gestore di una rivendita interna allo scalo. È accompagnata da un’amica di famiglia che le ha segnalato la ricerca di personale per una commessa part-time. L’uomo rimane d’accordo con la ragazza per rivedersi l’indomani mattina, per una prova. Il giorno successivo Ada si presenta sola all’appuntamento. Ma subito la situazione si fa insostenibile. «Quello comincia a rivolgermi frasi terribili con allusioni sessuali spinte e disgustose - racconta -. Non solo. Il negozio era piccolo, non c’erano grandi spazi. Si siede accanto a me, su una panchetta. E piano piano mi spinge verso la parete. In poche parole, ero impossibilitata a muovermi, mentre lui provava a mettere le mani tra le mie gambe. Ero pietrificata. Anche potendo non sarei riuscita a muovermi. Bloccata completamente. Pensavo solo quando arriva l’una e mezzo e mamma viene a prendermi?».
Ada è stravolta, a casa spiega tutto quel che è successo ai genitori. Insieme vanno a sporgere denuncia all’ufficio di polizia dell’aeroporto. Quattro anni dopo, il 5 giugno del 2002, la IX sezione del Tribunale penale di Roma emette la condanna nei confronti di F. T. perché colpevole di violenza: un anno e sei mesi di reclusione. Sentenza confermata in Appello il 14 giugno del 2005. «La legislazione del ’96 - spiega l’avvocato Luciano Randazzo, difensore della ragazza - considera atto sessuale ogni comportamento che un soggetto pone in essere nei confronti dell’altro al fine del soddisfacimento della propria sfera sessuale, a prescindere dal fatto compiuto in senso stretto. Per una donna, specialmente molto giovane, certi episodi provocano segni e sconquassi indelebili. In questo caso - continua - la vittima si è dovuta sottoporre a cure psichiche, trascinandosi dietro un profondo stato di disagio e difficoltà emotiva.

Il legislatore ha posto in essere strumenti legislativi per cui una donna può tutelare la propria dignità che vanno utilizzati. Il caso di Ada è uno fra mille altri, purtroppo, che per vergogna o per paura, vengono taciuti».

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