Le molte vite dell’ultima dinastia italiana

Marco Ferrante, giornalista del «Foglio», ha raccolto percorsi e vicende degli azionisti del maggior gruppo industriale privato della Penisola. Sei generazioni, undici distinti rami, circa 200 discendenti. È la famiglia che controlla la Fiat. Un libro ne racconta storie e personaggi

Le molte vite dell’ultima dinastia italiana

Milano - Oltre ai più noti, tipo John o Lapo Elkann, ci sono gli sconosciuti. Come Simone Collabiano, 34 anni, laureato in fisica nucleare, funzionario del ministero del Tesoro, unico in Casa Agnelli (lui è figlio di Consolata Camerana e Annibale Avogadro di Collabiano) a essere dipendente statale. Oppure quelli conosciuti ma per tutt’altre ragioni. Come Pietro Sermonti, attore, protagonista dell’ultima serie di un Medico in famiglia, popolare serial televisivo. È figlio di Samaritana Rattazzi (e quindi nipote di Susanna Agnelli) e dello scrittore Vittorio Sermonti.

In tutto sono un paio di centinaia di persone, spesso lontane per percorsi ed esperienze, distinte ormai in undici diversi rami familiari. Hanno, però, qualche cosa in comune: l’appartenenza all’ultima dinastia industriale italiana.

Arrivati alla sesta generazione, i discendenti del vecchio Senatore Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat, iniziano a rappresentare una specie di record vivente: la forza distruttiva del capitalismo ha travolto praticamente tutte le altre famiglie della rivoluzione industriale della Penisola. Non loro. In un libro appena uscito (Casa Agnelli, Mondadori) Marco Ferrante, giornalista del Foglio, ne ha raccolto le storie, comprese quelle meno note, e ha cercato di dare una spiegazione a questa capacità di sopravvivenza. Partendo dal periodo che poteva rappresentare la fine della dinastia e della sua azienda.

I giorni del 2003 in cui, venuto a mancare il patriarca Gianni, l’azienda ha bisogno di soldi e i soci familiari dell’accomandita (la società che sta in cima a tutta la catena di controllo del mondo Fiat) sono chiamati a partecipare a un aumento di capitale pescando dal proprio patrimonio personale. Le prospettive sono incerte, gli interessi di molti tra gli azionisti lontani da Torino e dall’Auto, ma i 250 milioni di cui c’è bisogno si trovano. A non aderire all’aumento di capitale (e a diluirsi di conseguenza nel capitale del gruppo) sono in pochi. Alla svolta, secondo Ferrante, contribuisce qualche cosa di impalpabile, una sorta di collante familiare, di senso di appartenenza, di «dover essere» che è uno dei segreti delle molte vite degli Agnelli. Non l’unico. C’è per esempio l’intelligente costruzione giuridica che cementa la proprietà familiare (nell’accomandita è di fatto un ramo solo, quello rappresentato oggi da John Elkann, a tenere in mano le chiavi della cassa).

C’è, infine, l’innata aggressività nel condurre gli affari, che non sembra essersi annacquata più di tanto con il passare degli anni e il trascorrere delle generazioni.

Come dimostra una delle ultime decisioni della famiglia: il cosiddetto equity swap, con cui gli Agnelli sono risaliti oltre il 30% del capitale della Fiat. Operazione decisiva per rafforzare la presa sul gruppo, ma condotta sul filo di norme e regolamenti. Gli animal spirits degli Agnelli, insomma, ci sono tutti. Vivi e vitali.

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