Controstorie

Il mondo del basket mette in campo i coach più famosi

Gregg Popovich e Steve Kerr non perdono l'occasione per polemizzare con il presidente E i loro fan li hanno candidati

Roberto Bonizzi

P er scherzo eh, ma nemmeno poi troppo. C'è un sito, una raccolta firme su change.org e una vendita di gagdet a tema, tazze e magliette comprese. Giocatori, colleghi allenatori, tifosi e addetti ai lavori del mondo della Nba (il basket professionistico americano) sostengono il ticket formato da Gregg Popovich e Steve Kerr, i due coach più in vista della lega, un tandem che dovrebbe sfidare Donald Trump alle presidenziali del 2020.

Due che più diversi di così sono quasi difficili da immaginare. Popovich è di formazione militare. Studi, esordi cestistici e da allenatore alla Air Force Academy. Un 69enne tutto ordine e disciplina che nel corso della sua lunga e vincente vita sportiva ha imparato ad apprezzare la diversità, i suoi San Antonio Spurs sono il primo esempio di franchigia che si è aperta ai giocatori stranieri. Nelle quasi 1.200 vittorie, con cinque titoli di campione, ha sempre brillato per silenzi su tutto quello che riguarda la sua squadra e risposte evasive rifilate ai malcapitati giornalisti obbligati a intervistarlo per contratto tra un tempo e l'altro delle partite.

Kerr, che di Pop è stato giocatore, è nato e cresciuto a Beirut dove il padre, Malcom, dirigeva per conto del governo l'università americana finché nel 1984 venne ucciso da un terrorista islamico. Negli Stati Uniti è considerato un «californiano». Allenamenti a suon di musica, corse sulla spiaggia, interi quarti di gara lasciati gestire ai giocatori in autonomia. La democrazia al potere.

L'idea del ticket viene dalle loro uscite politiche. Popovich ha «lapidato» pubblicamente Trump. «Codardo senz'anima», uno degli ultimi complimenti. Sulla polemica del presidente con gli sportivi che non onorano la bandiera - per cui il quarterback di football Colin Kaepernik «reo» di inginocchiarsi durante l'inno è senza squadra da oltre un anno - coach Pop ha sbottato: «Il nostro Paese è motivo d'imbarazzo per il mondo: questo individuo davvero pensa che quando le persone si tengono per le braccia durante una partita sia per onorare la bandiera. È delirante». Kerr ha tirato in ballo il primo emendamento: «Si garantisce libertà di parola per i neo nazisti e i loro slogan di odio, ma non per chi si inginocchia durante l'inno». E proprio i suoi Golden State Warriors campioni in carica hanno polemicamente interrotto la tradizione della visita alla Casa Bianca.

E poi c'è «l'elefante nella stanza», la questione della condizione delle persone di colore negli Stati Uniti. I giocatori, in maggioranza afroamericani, hanno rotto il meccanismo che li vorrebbe miliardari silenziosi senza diritto di opinione sulle questione sociali. LeBron James, il più famoso e il più pagato, ha messo la parola uguaglianza persino sulle scarpe e non perde occasione per attaccare Trump. «Non gliene frega un cazzo delle persone. Noi siamo americani, non contano razza, colore, ceto sociale, abbiamo tutti il diritto di batterci per avere gli stessi diritti. Non lasceremo che una certa persona agisca come un dittatore». E a una giornalista che gli chiedeva conto delle sue uscite ha risposto: «Non me ne starò in un angolo a palleggiare». Pop e Kerr, bianchi, stanno con i loro giocatori. «È difficile realizzare che si parte con un vantaggio di 50 metri in una gara da 100. E che si ha quel tipo di vantaggio solo perché si è nati bianchi» dice il coach degli Spurs. Con Kerr che, per ascoltarlo, ha sospeso gli allenamenti. Lo schema sulla lavagnetta è disegnato. A inizio novembre, dopo le elezioni di midterm, partirà la lunga marcia per le primarie democratiche, ma anche la stagione Nba.

Chissà che i due impegni non siano conciliabili.

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