Politica

Il mondo smarrito dell’Italia contadina

Credo di essere veramente conservatore. Forse questa condizione che, per molti versi, è rispecchiata anche nelle posizioni dei più intransigenti Verdi e dei no global, si manifesta con il rimpianto di un mondo perduto, di integrità morale e di sentimenti autentici. In un certo senso è quanto uno si aspetta da una destra tradizionalista; ma, in Italia, il suo maggior rappresentante fu certamente Pier Paolo Pasolini che lamentò la morte delle lucciole e la omologazione che minacciava - come poi è puntualmente accaduto - l'autenticità del mondo contadino, la dolcezza della vita rurale: per questo egli aveva ostinatamente difeso le identità linguistiche dei dialetti scrivendo poesie in friulano, presentando altri poeti come Virgilio Giotti e Biagio Martin; e poi, negli ultimi anni, rifugiandosi nelle aree più degradate di Napoli e del suo hinterland, luoghi della resistenza alla progressiva globalizzazione. Dopo la morte di Pasolini, con diverse premesse, una posizione analoga fu assunta da Giovanni Testori. Anche in quel caso il presente e il progresso si configuravano come nemici dell'uomo. Memorabile fu, di Testori, un articolo sulla neve che paralizzò per un giorno la città di Milano rimasta senza luce, con diversi disagi che allo scrittore sembrarono l'occasione per tornare a un tempo lento e perduto, di riflessioni e sentimenti dimenticati. Apparve una posizione così intransigente e reazionaria che il giorno dopo il quotidiano La Repubblica lo riprodusse, ironicamente, senza una sola variante, con una cornicetta Liberty a indicarne l'evidente anacronismo e l'affinità con il gusto crepuscolare del salotto di Nonna Speranza. A distanza di anni, per rinnovare quella sensibilità, proposi all'editore Bompiani la ristampa di un memorabile saggio di un altro «laudator temporis acti», José Bergamin: «Decadenza dell'analfabetismo». In questi tre autori la poesia, l'istinto, la verità del mondo contadino, il rapporto diretto con la natura, sono valori destinati a scomparire portandosi dietro un mondo di regole non scritte travolte dalle barbarie del progresso. Con le lingue dialettali si perde la nozione dei sapori, la conoscenza degli odori, l'irregolarità e la varietà delle forme.
Quello che Pasolini vedeva, alla fine di un ciclo tragico, negli anni Settanta, era iniziato implacabilmente un ventennio prima, sulla metà degli anni Cinquanta. Per difendere l'immagine dell'Italia che stava per essere perduta, un gruppo di virtuosi, conservatori e insieme progressisti, aristocratici sensibili al mondo contadino implacabilmente minacciato, fondano l'associazione Italia Nostra che, riconoscendo il sintomo, non riuscirà a evitarne le conseguenze. Ma scopro oggi, leggendo le pagine che diversi giornali ripubblicano in occasione del centenario della nascita di Leo Longanesi, che il filo di questi pensieri era stato dipanato con grande efficacia dallo scrittore romagnolo. Raffaele Liucci lo riconosce come esponente di «una destra conservatrice e altera, sobria e meritocratica, colta e pessimista, scettica e ironica, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona, ambientalista e diffidente della società di massa e dei suoi umori e malumori, anti-antifascista ma spoglia di rimpianti nostalgici. Una destra comunque contraddittoria, che esisteva quasi soltanto nel cuore di Longanesi». Longanesi identificava i mali italiani nel familismo, nella scarsa laicità dello Stato, nella cementificazione, nella televisione, nella mancanza di uomini liberi. Come non sentirsi vicini a lui, come non sentirsi conservatori?
Ma le sue considerazioni più condivisibili, mentre verifico il mio disagio nell'una e nell'altra parte politica e registro il loro sospetto, sono proprio quelle che fanno coincidere il mondo perduto con la distruzione materiale dell'Italia: «La miseria è ancora l'unica forza vitale del Paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto il frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custoditi soltanto dalla miseria. Dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitale, ecco che si assiste alla completa rovina di ogni patrimonio artistico e morale. Perché il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato, nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che l'umilia. La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall'imbroglio, da facili traffici, sempre, o quasi, imitando qualcosa che è nato fuori di qui. Perciò, quando l'Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un Paese di cui non conosceremo più né il volto né l'anima». Profetico, tragico, doloroso, Longanesi. Eppure è tutto accaduto, è tutto vero.

Non c'è speranza che il tempo perduto ritorni.

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