Nei manuali di volo dei fondi avvoltoio non c'è traccia del vecchio adagio popolare secondo cui «chi si accontenta, gode». L'Argentina lo ha definitivamente capito nella notte di giovedì, quando la clausura, durata due giorni in uno studio legale di New York con i rappresentanti degli hedge fund che hanno in portafoglio 1,5 miliardi di dollari di tango-bond, non ha prodotto uno straccio di accordo. Una sorta di teatrino dell'incomunicabilità alla Ionesco, tra gelide strette di mano e sorrisi di circostanza, ha finito per generare l'unica cosa partoribile: il secondo default di Baires nel giro di 15 anni. Sia chiaro: nulla a che vedere con la bancarotta sovrana da 100 miliardi del 2001. Questo è un crac selettivo, scattato d'ufficio sulle obbligazioni oggetto delle ristrutturazioni concordate tra il 2005 e il 2010 e sulle quali il Paese sudamericano non ha potuto pagare gli interessi, pari a 539 milioni, a causa di una sentenza della Corte suprema Usa.
La rottura dei negoziati ha liberato il governo argentino da ogni residuo obbligo di bon ton : qualcuno ha parlato di «estorsione», altri di una «vergogna di cui sono responsabili gli Stati Uniti», accusati di non essere capaci «nemmeno di intervenire nelle guerre, quando si stanno uccidendo persone». Poi, la minaccia: «Ci rivolgeremo all'Aia». Zitti, invece, i burattinai degli hedge. E un motivo c'è: forse hanno già trovato modo di sottrarsi dall'impasse piazzando i titoli a una cordata di cui farebbero parte JP Morgan, Citigroup e Hsbc. Un passaggio di mano, che renderebbe inutile l'eventuale intervento-ponte da parte di un pool di banche argentine come ventilato l'altroieri, al prezzo di 1,4 miliardi. Una cifra niente male, capace di mettere la sordina perfino alla proverbiale avidità dei nipotini di George Soros, l'uomo che negli anni '90 mise alle corde sterlina e lira. Un assegno del genere equivale, infatti - dollaro più, dollaro meno - a una plusvalenza del 300% circa sulle obbligazioni acquistate. Un esempio? Elliot Management, il fondo avvoltoio salito più di tutti sulle barricate nella battaglia contro Baires, aveva comprato all'epoca bond spazzatura per 48,7 milioni: ora il loro valore ammonta a 832 milioni.
Questa logica del profitto esponenziale, spesso da mordi e fuggi, non tiene quasi mai conto delle conseguenze che produce. Nel caso specifico, il rischio di una crisi sistemica, capace di contagiare più Paesi, non pare sussistere: l'Argentina è poco presente sui mercati internazionali e non risultano esposizione significative verso il Paese di singoli operatori o gruppi di operatori. Oggi, comunque, l'International Swaps and Derivatives Association deciderà se l'incapacità di versare gli interessi su alcuni bond da parte dell'Argentina fa o meno scattare il pagamento di contratti siglati per proteggersi dal fallimento del Paese stesso. Ma i guai veri potrebbero essere altri. Se il default si traducesse in una crescente difficoltà a trovar credito sui mercati internazionali, Buenos Aires sprofonderebbe in una seria recessione accompagnata da svalutazione del peso, iper-inflazione e disoccupazione. Soldi in cassa, del resto, ce ne sono pochi. Le riserve valutarie, pari a 25 miliardi di dollari contro gli 80 durante la presidenza di Nestor Kirchner, sono state quasi desertificate a causa dell'inutile difesa della parità col dollaro. Una maggiore dote avrebbe permesso più libertà d'azione nei confronti degli hedge fund. Invece l'Argentina è assetata di capitali stranieri: ogni anno, solo per pagare la bolletta energetica, deve tirare fuori un miliardo di dollari. Dal 2012, con lo sgonfiarsi del surplus commerciale, i nodi della politica peronista di Cristina Kirchner sono venuti al pettine, tra menzogne sull'effettivo costo della vita e sullo stato dell'economia.
Questo per dire che anche la Casa Rosada ha le sue colpe. Non ultima, quella di aver scelto la giurisdizione di New York per le proprie obbligazioni. Esponendosi così al giudizio di un Paese straniero. Ma ben più gravi appaiono le responsabilità degli hedge fund.
La loro sete di denaro può aprire un vaso di Pandora: in futuro, eventuali ristrutturazioni del debito potrebbero essere complicate dalla volontà dei creditori di trovare accordi più soddisfacenti. E, comunque, un default a tavolino ha sempre il retrogusto amaro di una partita vinta barando.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.