Combattere Daesh significa fronteggiarlo da Raqqa fino a Mosul. La risoluzione 2249 discussa e approvata al Consiglio di Sicurezza dopo gli attentati di Parigi si interessa proprio a quei territori in cui si estende il Califfato di Al Baghdadi. De iure questa non comprende il Capitolo VII della carta delle Nazioni Unite, che fornisce specifica autorizzazione legale all’uso della forza, tuttavia nel paragrafo operativo numero 5 si parla di “una minaccia globale per la pace e la sicurezza internazionale” e si invitano i Paesi che hanno i mezzi ad “usare tutte le misure necessarie” contro il nemico comune in conformità con il diritto internazionale. De facto conferisce legittimità alle azioni militari in Siria e Iraq intraprese da Stati che sono sia membri permanenti Consiglio di sicurezza sia della Coalizione Internazionale.
Mentre a Parigi Barack Obama conferma la sua strategia diversa da quella di Vladimir Putin, il capo del Pentagono Ash Carter ha annunciato in un’audizione davanti alla commissione Difesa della Camera che gli Stati Uniti “sono pronti a espandere” le operazioni in Medio Oriente con l’invio di forze speciali che agiranno in coordinamento con l’esercito locale e i peshmerga curdi iracheni. Non si è parlato di “boots on the ground”, ma si tratta comunque di professionisti sul terreno. Questi militari insomma potranno agire in modo unilaterale anche in Siria, effettuando incursioni, liberare ostaggi e catturare leader dei jihadisti. Questa strategia rientra nel piano già esposto qualche giorno fa dal segretario di Stato Usa, John Kerry, parlando al termine del vertice Nato che parlando da Bruxelles, aveva assicurato di aver preso in considerazione la volontà di Baghdad.
Eppure qualche ora dopo le dichiarazioni di Ash Carter, il premier iracheno, Haider al Abadi, ha fatto sapere in un comunicato stampa che il suo Paese “non ha bisogno di truppe straniere di terra” sottolineando come “qualsiasi operazione di terra in Iraq non potrà avvenire senza il consenso del governo e il coordinamento con esso nel rispetto della sovranità nazionale”. La posizione del leader sciita è chiara: non si accetta alcuna ingerenza da parte degli Stati Uniti. Al Abadi era già intervenuto martedì parlando in una base militare di Kerbala, nel sud del Paese, dopo che alcune milizie sciite – tra cui quella irachena di Hezbollah - avevano fatto sapere che non avrebbero accettato la presenza di truppe Usa sul territorio.
Queste richieste di rispetto della sovranità territoriale potrebbero rimanere lettera morta perché Washington può impugnare la risoluzione
2249 dell’Onu che di fatto nella lotta contro l’Isis non menziona né il governo siriano né quello iracheno (di fatto non c’è la necessità di coinvolgerli in quello che accade in quelle regioni controllare dal Califfato).
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