Bruxelles - Se si parla di terroristi e radicalismo, Molenbeek c’entra sempre qualcosa. Questo municipio – uno dei 19 comuni di Bruxelles – ha circa 100 mila abitanti a maggioranza musulmana ed enormi problemi di disoccupazione. È la fabbrica del jihadismo nel cuore d’Europa. Da qui sono passati i sicari marocchini con passaporto belga che il 9 settembre del 2001 assassinarono il comandante Ahmad Shah Massoud, il «Leone del Panjshir», che dopo aver guidato la guerriglia contro l’invasione sovietica in Afghanistan stava combattendo contro il regime dei talebani. Anche Hassan El Haski, che si ritiene essere la mente degli attentati di Casablanca nel 2003 e di Madrid nel 2004, è passato da Molenbeek. Sempre da qui è partita Muriel Degauque, la prima europea che si è trasformata in kamikaze nel 2005 a Baghdad, in Irak. Più recentemente, anche Mehdi Nemouche, autore dell’attacco al museo ebraico di Bruxelles del maggio del 2014, aveva vissuto a Molenbeek per qualche mese prima dell’attentato. Così come Ayoub El Khazzani, l’uomo che sognava la strage sul treno Thalys diretto a Parigi nell’agosto scorso. Ma non basta. Sembra che alcune armi utilizzate per l’attacco a Charlie Hebdo del gennaio 2015 siano state comprate proprio qua. Ora da qui vengono anche gli assassini di Parigi. I sintomi della malattia, dunque, c’erano tutti. E molto evidenti. Allora, perché non si è cercata subito una medicina? Una terapia? Molenbeek è il secondo comune più povero e più giovane del Belgio. Una qasba con più di venti moschee ad appena 15 minuti a piedi dal Grand Place - il centro della capitale europea - dove il francese quasi sparisce e lascia spazio all’arabo. Insegne dei negozi compresi. «Questo comune è una realtà molto complessa ma ha anche molte potenzialità», mi dice nel suo ufficio Annalisa Gadaleta, italiana che da 21 anni abita qui ed oggi ricopre la carica di assessore alla Cultura, all’Istruzione pubblica e all’Ambiente. «Non c’è stata una gestione corretta dei fenomeni di migrazione e soprattutto non si è lavorato sull’integrazione di queste persone». Parte della colpa è anche di Philippe Moureax, l’ex sindaco socialista che ha governato Molenbeek per dieci anni - dal 1992 al 2012 – che, secondo l’assessore, «ha avuto una politica sbagliata». Una politica paternalistica in cui i giovani musulmani radicali venivano visti quasi come delle vittime escluse dalla vita sociale ed economica.
L’ex sindaco pensava di risolvere il problema «dando una casa, ma sappiamo bene che non è così». Il partito socialista al governo, continua la Gadaleta, «si è sempre opposto all’idea di creare dei percorsi di integrazione obbligatori». Molti «non parlano neanche il francese, come è possibile integrarsi?». Anche per questo il fenomeno di radicalizzazione nell’ultimo periodo ha preso sempre più piede. Molti abitanti di Molenbeek, soprattutto quelli della seconda generazione, non si sentono parte di questa società. E’ un dato di fatto. «L’Islam radicale - spiega l’assessore Gadaleta - è sicuramente un problema che è stato sottostimato da tutti e sono stati commessi degli errori». Sottostimato è poco e di errori sembra che ne siano stati commessi davvero tanti. I nomi di Salah Abdeslam - il super ricercato che ora sembra essere sparito nel nulla - e di Mohamed Abrini, ma anche quelli dei fratelli Abaaoud, erano sulla lista di 85 persone sospettate di radicalizzazione, preparata dal coordinamento anti-terrorismo del Belgio ed inviata anche all’attuale sindaco di Molenbeek Francoise Schepmans. In questi elenchi, fatti per ogni comune, sono segnalate diverse categorie di persone: quelle partite e rientrate dalla Siria, quelle sospettate di essere in partenza, quelle che sarebbero morte in combattimento, quelle radicalizzate e anche i nomi dei predicatori. A Bruxelles, i servizi di sicurezza sono frammentati e la sensazione è che tendano a competere tra loro. Quindi anche la mancanza di una autorità centrale forte potrebbe essere uno dei tanti errori commessi. Oltre alle persone che partono per andare a combattere sotto le bandiere nere dei tagliagole - circa 500 fino ad oggi - altri ritornano e sono quelli che Annalisa Gadaleta definisce «neuroni liberi che potrebbero anche dirigersi verso atti violenti come è successo a Parigi». Per questo «bisogna occuparci di loro». Ma precisa: «La maggior parte dei musulmani che abitano qua non solo condanna gli attentati, ma non apprezza neanche l’Islam radicale e non si sente assolutamente rappresentato da questo». Che «la maggior parte della comunità musulmana sia pacifica» me lo ribadisce anche il Rabbino Avi Tawil, presidente dell’European Jewish Community Center di Bruxelles. Lo incontro in un palazzo vicino alla fermata della metropolitana Schuman, vicino alla sede della Commissione Europea, dopo aver passato un accuratissimo controllo fatto da una guardia privata che molto probabilmente arriva direttamente da Israele, con il giubbotto antiproiettile sotto la camicia. «Abbiamo sempre avuto sicurezza privata. Nell’ultimo periodo l’abbiamo aumentata, dopo quello che è successo è normale», mi spiega. «Siamo stati minacciati più volte» e mi racconta anche alcuni episodi personali. «Ma non dobbiamo avere paura». Parlando di Islam mi dice che «una cosa importante che si trascura è l’interpretazione del testo sacro». Secondo Tawil «nonostante tanti cerchino di interpretalo correttamente, alla maggioranza delle persone, soprattutto alla gente che viene dalla strada, vengono lette solo alcune parti». Ma per questo non bisogna cadere nell’errore di condannare tutti i musulmani. Perché, così facendo, gli diciamo «che non c’è posto per loro nella nostra società, che se vogliono sentire un senso di appartenenza devono rivolgersi all’estremismo». Dovremmo fare esattamente il contrario: «Accogliere i moderati e sostenerli nella loro battaglia contro il radicalismo all’interno della loro comunità, come dovremmo fare con ogni altra comunità umana che affronta battaglie simili». A Molenbeek, la piazza davanti all’imponente chiesa di Saint Jean Baptiste è quasi deserta. Non lontano si trova la moschea el-Mostakbal, l’entrata è quella di una piccola palazzina di una via laterale. E’ ancora chiusa. Mi spiegano che viene aperta solo durante l’orario della pregheria. Mentre aspetto mi fermo in un bar vicino. Ordino un caffè e cerco di parlare con le poche persone che ci sono. Ma qua nessuno ha voglia di parlare, sono tutti molto diffidenti. Solo una donna, vestita in modo occidentale e senza velo, che da tempo si batte contro il radicalismo e che per motivi di sicurezza vuole rimanere anonima, mi spiega che alcune persone della comunità non vogliono parlare perché «sono timide nel contrastare questo fenomeno, perché sono in qualche modo attratte dal fondamentalismo e lo vedono come una sorta di riscatto».
All’orario della preghiera entro anche io, l’aria che si respira è molto tranquilla e le persone sono tutte molto gentili. Aspetto che la funzione finisca e chiedo di parlare con l’Imam. Il custode della moschea, però, mi chiede subito se sono un giornalista e poi taglia corto: «l’Imam Ahmed in questo momento non c’è». Cerco di insistere, ma la risposta è sempre la stessa. Allora mi dirigo nella parte sud di Molenbeek, dove si trova la grande moschea al-Khalil, dove mi hanno detto che la zona è piena di infiltrati dei servizi segreti marocchini. Notizia che non posso confermare. Ma anche qua, dopo aver parlato con diverse persone, non riesco a raggiungere l’Imam. Sono da poco passate le tre e alla sede di Islamic Relief, una associazione umanitaria che ha progetti in tutto il mondo, ho appuntamento con l’Imam e storico Hocine Benabderrahmane. Mi racconta la sua storia personale e non è assolutamente sorpreso da quello che sta succedendo. «Il radicalismo è un problema che ho segnalato diversi anni fa, ma nessuno mi ha dato retta. Anche in Italia avevo evidenziato il pericolo rappresentato da alcuni Imam salafiti a Varese e Genova». Ora il radicalismo è arrivato al suo apice, ma Hocine sostiene che «è importante sottolineare che il reclutamento non si fa nelle moschee». Quasi tutto si fa attraverso internet e ha una tempistica velocissima. In tre o quattro settimane si diventa un perfetto jihadista. «In passato la maggioranza dei giovani radicali arrivavano dal Marocco e dall’Algeria. Invece ora, il radicalismo prende soprattutto i giovani che sono nati qui, che sono in rottura con questa società». Alcuni di questi si sono convertiti e c’è un problema di comunicazione. «Oltre alla lingua, non riescono a capire alcune nozioni fondamentali dell’Islam». Per questo «cerco di spiegare che bisogna studiare, bisogna studiare la religione per osteggiare il discorso radicale. Ai giovani dico sempre che bisogna integrarsi qui perchè bisogna vivere qui e dunque bisogna comportarsi in base alle leggi che ci sono qui». Cala la notte e i riflettori su Molenbeek si stanno pian piano spengendo. Ma il problema rimane. In gran parte legato alla miopia mostrata dai Governi Occidentali quando si tratta di intervenire in aree di crisi del Vicino Oriente. Questa periferia europea è sempre stata un terreno fertile per il radicalismo e anche un pessimo esempio delle politiche d’integrazione.
E ora che nessuno potrà dire di non sapere, è il tempo del fare. Per questo c’è bisogno dell’aiuto di tutti. Anche della numerosa e pacifica comunità musulmana che però ora deve emarginare i violenti. Con i fatti. Senza avere paura.
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