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Podemos, rieletto Iglesias. Ma il movimento è lacerato

Oggi la formazione antisistema spagnola è ormai lontana anni luce da quel movimento agile e idealista che aveva colto la politica iberica di sorpresa e che ancora un anno fa sembrava pronto a conquistare il primato nella sinistra

Podemos, rieletto Iglesias. Ma il movimento è lacerato

Come un mantra, come un esorcismo, i militanti al congresso come una voce sola a chiedere «unità», «unità». E poi «presidente», «presidente». Ieri Pablo Iglesias, il leader di Podemos, il partito che ha scardinato cinquant’anni di bipartitismo perfetto l’ha spuntata. Rieletto alla segreteria da un plebiscito dell’89%. Il movimento ha scelto, e questa volta ha deciso per la linea più dura, intransigente, quella del suo fondatore Iglesias. E però non era così scontato. Al palazzo Vistalegre di Madrid si è appena concluso il congresso del movimento. Il più importante da quel 2014, quando nello stesso palazzo il movimento è stato fondato. Ma allora era tutta un’altra storia e Podemos era gonfio di una rivoluzione piena di ambizioni e di euforiche promesse. Oggi la formazione antisistema spagnola è ormai lontana anni luce da quel movimento agile e idealista che aveva colto la politica iberica di sorpresa e che ancora un anno fa sembrava pronto a conquistare il primato nella sinistra. Dilaniata da lotte interne, sembra aver imboccato il sentiero inglorioso del nostro Movimento 5 Stelle di Grillo.

Podemos soffre, lacerato come mai nella più classica delle guerre civili dei partiti di sinistra: scontri personali, colpi proibiti, polemiche feroci a tutti i livelli. Tutto è nato dalla spaccatura del tandem che finora aveva governato il partito nato dalle piazze degli indignados, il leader Pablo Iglesias contro il suo vice Inigo Errejon. Due visioni del movimento diverse che sono deflagrate con una guerra di bande. Iglesias più movimentista, ha sempre voluto un partito più intransigente, senza compromessi né di programma né con le altre forze politiche. Ecco perché in quei lunghi dieci mesi in cui i partiti politici spagnoli non sono stati in grado di esprimere un nuovo governo nonostante due tornate elettorali, lui ha tenuto il punto e non ha ceduto. Non senza battagliare aspramente sottotraccia con il suo vice. Strategia che però alla lunga ha indebolito la sua autorevolezza e il partito stesso che ne è uscito a pezzi. Oggi sono in molti a pensare che sia stata un’occasione persa irripetibile. Errejon è da sempre più istituzionale e incline a un accordo con i socialisti.

La campagna elettorale è stata durissima. E oggi ne pagheranno un po’ tutti le conseguenze. A partire dal leader che ne esce vincitore si, ma ridimensionato. Il suo documento ha vinto con il 51%, ma solo due anni fa vinceva con l’80. «Abbiamo dato un brutto spettacolo», ha ammesso Iglesias. Lui, che aveva minacciato l’addio in caso di sconfitta per ora sta al suo posto, ma senza sentirsi troppo comodo. Deve ricucire un partito lacerato che ieri ha solo finto di fare pace. Oggi, persa la battaglia per la Spagna, deve vedersela con un premier conservatore come Mariano Rajoy sempre più saldo al potere che invece incassa consensi.

Ieri a pochi chilometri di distanza, in un altro palazzetto di Madrid, andava in scena il congresso dei popolari. L’incoronazione di Rajoy al 95%. Un risultato bulgaro. È chiaro che la lotta di Iglesias è per restare a galla.

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