Con la riforma fiscale appena approvata e la prima importante promessa elettorale mantenuta, Donald Trump può trascorrere un Natale sereno, anche se le preoccupazioni del presidente non sono svanite. La Corea del Nord e il Medio Oriente sono i fronti più caldi, senza dimenticare l’Iran e i rapporti tesi con la Russia. Ma non è lo scacchiere internazionale a preoccupare di più il comanderà–in–chief, quello che lo agita di più è la situazione interna, con due fronti aperti.
La prima forte preoccupazione è il Russiagate, con l’indagine sulle presunte ingerenze di Mosca nelle elezioni americane. A preoccupare la Casa Bianca non è tanto l’effettiva consistenza di queste accuse, quanto per le menzogne che qualcuno di molto vicino a Trump avrebbe detto per “coprire” i legami con la Russia. E se non sono bugie (come quelle di Michael Flynn, poi costretto alle dimissioni dopo soli 24 giorni dalla nomina a consigliere per la Sicurezza nazionale) si può parlare di silenzi e omissioni imbarazzanti. Scomode veritá che non si possono dire, ma che potrebbero venire a galla grazie al lavoro certosino del procuratore speciale Robert Mueller.
A preoccupare di piú Trump, però, sono le elezioni di Midterm, che si terranno il prossimo novembre. A undici mesi di distanza può accadere di tutto, su questo non ci sono dubbi. Il presidente, però, sa bene che non sono ammessi errori. Perché c’è il rischio di perdere il controllo del Congresso e in tal caso saranno guai. La sua presidenza diventerebbe zoppa e, di fatto, ogni misura dovrebbe essere mediata (ancor più di oggi) cercando il consenso dei democratici. Insomma, Trump vedrebbe i suoi due ultimi anni alla Casa Bianca come un lento ma inesorabile susseguirsi dei titoli di coda di un film che non è mai arrivato al dunque.
Il segnale negativo è arrivato in Alabama, con le elezioni suppletive per il seggio del Senato lasciato vacante da Jeff Sessions, divenuto ministro della Giustizia. In uno Stato fortemente conservatore i repubblicani hanno rimediato un sonoro schiaffone, con il loro candidato, Roy Moore (fortemente sostenuto da Trump), che ha perso, sia pure di misura. Ha perso non solo perché era un personaggio molto “chiacchierato” (accusato di molestie da alcune ragazzine, per fatti risalenti a 30 anni fa tutti da verificare, a onor del vero), ma soprattutto perché il partito repubblicano si è dato un gran da fare per bloccarlo, contrastandone l’ascesa. Lo stop inferto a Moore (e a Trump) è soprattutto un segnale forte che il Grand Old Party ha voluto dare al presidente. Un segnale di questo genere: se vuoi vincere le elezioni di Midterm lascia perdere Bannon. Non a caso dietro a Moore c’era proprio Steve Bannon, che pur avendo lasciato il ruolo di consigliere alla Casa Bianca, la scorsa estate (per i profondi dissidi con buona parte dello staff del presidente), ha continuato a esercitare un ruolo importante a livello politico, mettendosi in testa di voler condizionare la politica americana facendo eleggere, al Congresso, quanti più candidati possibili vicini alla cosiddetta Alt Right, la destra populista a lui più vicina.
In Alabama, però, il “gioco” è saltato, per la grande gioia dell’establishment del partito repubblicano, in primo luogo Mitch McConnel, leader della maggioranza al Senato. Ma anche della famiglia Bush, di Condoleeza Rice (che si è spesa in prima persona contro Moore), dello speaker della Camera Paul Ryan e di buona parte dei media conservatori americani. Bannon si lecca le ferite ma non molla. Dobbiamo capire cosa fará Trump, che ha caldo ha subito preso le distanze dallo sconfitto Moore, dicendo che lui aveva detto fin dall’inizio di voler un altro candidato (Luther Strange, poi sconfitto alle primarie).
Sotto l’albero di Natale Trump spera di trovare una strategia buona per salvare capra e cavoli: non può rinunciare del tutto a Bannon (e a ciò che rappresenta), perché vorrebbe dire rottamare il “trumpismo”. Al contempo non puó non tenere conto che senza il pieno sostegno del suo partito non andrà molto lontano. La sfida si fa davvero dura per il tycoon.
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