Se quel che mancava era un totem alla presunzione e alla mania di grandezza linaugurazione del BurjDubai cade a fagiolo. Nulla come quello smisurato grattacielo da 169 piani e oltre 800 metri di altezza riassume meglio lallegra follia dellemirato di Dubai. Tre settimane fa era un impero in bancarotta costretto a pietire dai cugini di Abu Dhabi dieci miliardi di dollari per far fronte a un debito da oltre ottanta. Oggi è di nuovo il regno delleccesso e dellesagerazione pronto a festeggiare lapertura del più grande edificio del mondo. Una montagna di cemento e acciaio capace, tanto per capirci, di contenere due Empire State Building uno sullaltro. Una spericolata spirale avvitata nel cielo dove per passare dalla fornace del piano terra ai dieci gradi in meno del piano attico è sempre meglio non dimenticare il cachemirino.
Del resto quale altra empirea stravaganza poteva sognare un sovrano come Mohammed bin Rashid al- Maktoum. Un mese fa - mentre il regno rischiava la bancarotta, i finanzieri raschiavano il fondo delle casse e i creditori pensavano al suicidio - lui saggirava per le sale del British Museum di Londra, digitava un regale «I phone» e spediva ai «twitter-amici» un ispirato messaggio dicendosi «estasiato per le bellezze dei manufatti islamici».
«Quanto ne saprà di quel che gli succede in casa» - si chiedevano in quei giorni i suoi detrattori. «Ma si rende conto di quel che ha messo in piedi» - continuano a chiedersi oggi gli spettatori di questa surreale inaugurazione. Tagliando il nastro del Burj Dubai Sheik Mo, come lo chiamano amici e conoscenti, inaugura un monumento allo spreco e unicona dello scialo assolutamente priva di concorrenti e di rivali. Solo premere il tasto dellaria condizionata per rendere vivibile quella torre dacciaio, vetro e cemento equivale a sciogliere 12.500 tonnellate di ghiaccio al giorno e a consumare milioni di litri di acqua desalinizzata. Roba da far schiattare i reduci di Copenaghen già infuriati per le statistiche che dimostrano come Dubai sia la città del pianeta con la più alta produzione pro capite demissioni di carbonio.
Se la rabbia ambientalista si può ignorare più difficile sarà fronteggiare le proteste, la disperazione e i mancati pagamenti di chi ha comprato sulla carta appartamenti per oltre 700 milioni di euro e sconta perdite sul prezzo dacquisto in drammatico e costante peggioramento. Lunico a fregarsi le mani, se riuscirà a incassare le fatture, sarà Giorgio Armani. Il nostrano imperatore della moda sè ritagliato tra quel cemento e quei cristalli una commissione da favola aggiudicandosi le opere darredamento di 144 degli oltre 900 appartamenti. Prima di brindare Re Giorgio dovrà però pensare alle sorti dellhotel con il suo marchio aperto in quella cattedrale dellopulenza. Sarà il primo al mondo a portare il suo nome, ma il genio della moda e dello stile italiano sicuramente sperava in tempi e luoghi migliori per un debutto nel settore alberghiero.
Le preoccupazioni di Armani sono poca cosa rispetto a quelle di chi sè accollato larduo compito di mettere sul mercato i 28mila metri quadrati di superficie destinati a ospitare uffici, negozi ed attività commerciali. Fino ad oggi i venditori non sono riusciti a piazzarne manco uno e in molti scommettono su altri lunghi mesi di vacche magre e spazi deserti. Sheik Mo può però consolarsi. In fondo per tirar su quel siringone sparato in un cielo di sogni e speculazioni i suoi architetti e i suoi costruttori han potuto contare su legioni dimmigrati pakistani e indiani pronti a piegar la schiena per meno di tre euro al giorno. Grazie a quelle schiere di lavoratori a basso costo lo sceicco ed il Medio Oriente tornano a vantare ledificio più alto del mondo.
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