Carlo Bianchi
Massimo Moratti sa che il calcio è imprevedibile. E ne trae spunto per un'analisi, somma e concisa, della sfida di domenica sera, Juve-Inter: «La squadra arriva nelle migliori condizioni di forma, ma anche i bianconeri stanno vivendo un ottimo momento. Quindi sarà una grande partita».
Evviva il bel gioco, lontano dai sospetti. E dalle battute della settimana sugli errori arbitrali del passato a favore di bianconeri o nerazzurri: «Arbitra Paparesta, una garanzia. Ma per me sarebbe andato bene chiunque, l'importante è che lì (a casa della Juve, ndr) si dimostrino in forma». Insomma, gli episodi decisivi saranno dribbling e tiri, triangoli e cross: «Adriano può fare davvero la differenza, ma sarà sfida durissima, da vincere a centrocampo, possibilmente senza sprecare tutte le occasioni create con il gioco. Qualche errore in meno sotto porta non guasta».
L'ha già detto Mancini, lui lo ripete, aggiungendo: «Al di là dei tre punti la partita non è decisiva sul piano della classifica. Ma è un esame che, se superato con successo, può permetterti il salto di qualità, può darti grande morale». Di fronte non c'è solo la Juve, c'è anche quel Moggi odiato (in pubblico) e corteggiato (in privato). Moratti sembra chiudere il discorso su un possibile arrivo del dg bianconero a Milano: «Moggi è un dirigente della Juve, nell'Inter ci sono già grandi manager che hanno la mia totale stima».
Niente Moggi, allora, in campo ci vanno i giocatori. Ora serve solo pensare alla partita. Stare vicino alla squadra, che però perde uno dei pezzi pregiati, uno degli uomini più in forma, su cui Roberto Mancini conta da sempre: Sebastian Veron ha la febbre, domenica non ci sarà. Tocca a Pizarro, al centro. Ma soprattutto tocca a Luis Figo, sui lati, che sia destra o sinistra.
Giovedì, Figo dice alla Gazzetta dello Sport: «Per tutte le squadre esiste una barriera. Quella tra il non vincere e l'abituarsi a vincere. Ecco, l'Inter deve oltrepassarla». Nella sua carriera ha passato moltissimo tempo di là della barriera. Metteva una maglia qualunque, a strisce orizzontali (Sporting Lisbona), a strisce verticali (Barcellona), persino senza strisce (Real Madrid), e giù vittorie. Titoli, coppe, pallone d'oro. Tanto tempo oltre la barriera tra gioia e amarezza.
Anche l'Inter - almeno dall'89 - ha passato molto tempo da una parte della barriera: ma la parte sbagliata. Quella di chi vincere non sa. Così l'Inter e Figo non potevano vedersi: di mezzo c'era la barriera. Figo a Madrid con l'affetto della famiglia, Figo a Madrid con l'affetto dei tifosi. Si sveglia sereno tutte le mattine, porta la moglie e le tre bambine a colazione nel bar del Parque Conde de Orgaz, si allena. Gioca sempre, sorride spesso. Un giorno il Real cambia allenatore: arriva Luxemburgo e Figo si siede in panchina. Il sorriso scompare. È offeso, come ha ricordato: «A un giocatore di 32 anni, come minimo, devi spiegare perché non lo fai giocare».
Morale (ma a Luis appare «immorale»): il Real lo scarica. Lui si cerca una squadra, getta pure un'occhiata alle spalle, dove stanno quelli che non sanno vincere. E vede, oltre la barriera, l'Inter. Affare fatto, Figo è a Milano. Adesso siede sopra la barriera. Guarda i compagni, va in campo e dà l'esempio: «L'unico modo per vincere - ripete - è volerlo, è desiderare la vittoria».
Il buon avvio di stagione è il suo modo di tendere la mano: ma a fare il salto devono essere tutti i compagni. Il portoghese non è l'unico nerazzurro ad aver ottenuto grandi successi in carriera, ma è certamente l'uomo cui ottenere i successi riesce più facile. Per strada si direbbe: «È un vincente». Lui si limita a dire: «Fisicamente sto bene, gioco in una squadra fantastica, la gente di Milano mi apprezza». Tutto qui.
Il resto è domani. Pronti ad aggiungere l'ennesima sfida: Capello-Mancini, Ibrahimovic-Materazzi, Emerson-Cambiasso.
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