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"L'unica ferita ancora aperta è aver perso la Ferrari F1"

Nel 2011 aveva appena detto sì alla Rossa ma si schiantò nei rally. Ora si è ripreso il Cavallino per Le Mans

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Sul corpo prima hanno lavorato parecchio gli altri, medici e chirurghi. C’erano 42 fratture da rimettere a posto, in pratica tutto il mio lato destro.
Sulla mente invece ho dovuto lavorare io ed è stata tosta. Una volta che il fisico era a posto e i miei limiti erano chiari, sapendo che non sarei più tornato come prima, ho dovuto cominciare a lottare con la mia testa perché all’inizio il cervello rifiutava il mio corpo. Mi svegliavo e non sentivo il mio lato destro, il braccio, la mano. Mi ero reciso anche dei nervi e non avevo la sensibilità nelle dita, cosa che ancora oggi non ho del tutto».

Robert Kubica ricorda così la sua resurrezione dopo l’incidente al rally di Andora del 6 febbraio 2011.

Era arrivato in ospedale a Pietra Ligure in coma e con un litro e mezzo di sangue. Salvarlo non è stato semplice. Ricominciare è stato ancora più complicato. «La medicina migliore è stata guidare. La concentrazione che richiede la guida sportiva, faceva sparire i miei limiti. So di averli perché mi guardo, mi vedo. Ma guidando non appaiono più». Robert che ha compiuto 39 anni a dicembre, ha dovuto smettere di pensare a quello che aveva perso e concentrarsi su quello che gli restava. «Ho imparato a pensare di essere stato fortunato perché ero ancora vivo e non a quanto ero stato sfortunato nell’incidente. Ero un pilota di Formula 1, avevo firmato un contratto con la Ferrari per il 2012, quello sarebbe stato il mio ultimo rally. Non dovevo più pensa « re alla vita che avrei avuto senza incidente. La vita mi ha servito un momento difficile, ma sono qua che vivo e corro». Oggi è pilota della terza hypercar Ferrari, quella gestita da AF Corse nel mondiale Wec, dove l’anno scorso è stato campione del mondo di categoria con l’Oreca.

Ma chi glielo ha fatto fare quel rally quando aveva un contratto Ferrari in tasca?
«Correvo nei rally per migliorare la mia sensibilità. Mi è servito se penso alla gara in Cina del 2007 e a quella in Australia del 2010 quando feci delle scelte di gomme vincenti. Certo, forse oggi non lo rifarei...».

Dubbi, cedimenti?
«Ci sono stati momenti, anche dei mesi interi, in cui sarebbe stato più facile smettere. Pensare ho fatto il mio, la vita mi ha offerto questo scenario, ora faccio altro. Invece la mia testardaggine e la passione mi hanno riportato in pista».

Ed è diventato mancino.
«A 28 anni mi sono ritrovato a dover imparare a fare delle cose che fai da bambino. A lavarmi i denti, a scrivere...».

Chi è oggi Robert Kubica?
«Domanda secca ma complessa. Sono uno sportivo di 39 anni rimasto appassionato».

Come ai tempi dei kart?
«Dodici mesi fa avrei risposto in modo differente. Correvo in endurance, ero terzo pilota in F1, facevo un botto di viaggi, ma guidavo poco... La passione del bambino quasi non c’era più. Adesso è tornata la stessa ed è bello: ho sempre basato tutto sull’ascolto di me stesso».

Come è stato tornare in F1?
«Tornare con la Williams è stata una grandissima vittoria forse il risultato più difficile da raggiungere a livello umano. Purtroppo non c’erano i presupposti per far bene.
C’era anche chi diceva che a Monaco non sarei riuscito a guidare. Invece è stata una delle mie gare migliori».

Non c’era un problema di spazio nell’abitacolo?
«Devo muovermi in modo diverso per superare i miei limiti. Ma oggi non è un problema».

La vita l’ha riportata su una strada interrotta dall’incidente: la Ferrari.
«Aver mancato la Ferrari F1 è una ferita che forse non si è mai chiusa completamente. Io sono cresciuto sportivamente in Italia ed è normale che la Ferrari diventi una cosa speciale. Non posso dire adesso di essere in pace con me stesso, però certamente aver adesso avuto l’opportunità di guidare una hypercar Ferrari è qualcosa di speciale».

Le Mans.
«È stata una bella scoperta. Mi ha fatto rivivere le sensazioni del bambino che partiva in furgoncino dalla Polonia con papà per correre a Ugento...».

Quei viaggi a Ugento... che ricordi ha?
«Mi sono tornati in mente rileggendo certi racconti di Verstappen. Nella mia prima gara internazionale ero arrivato secondo, battuto da Ale Pier Guidi. Ricordo il viaggio di ritorno: 2600 chilometri senza che mio padre mi parlasse».

Almeno non l’ha lasciata all’autogrill come il papà di Max.
«Però è stato duro, anche se mi ha fatto bene. Non è facile arrivare a certi livelli. Devi avere il talento, ma non basta, ci vuole anche molto lavoro su se stessi. E fame».

A 39 anni è veloce come a 25?
«È difficile paragonare le velocità. Mi ritengo molto più maturo, anche se penso di essere uno che era maturato in fretta. Nell’endurance c’è molto più lato umano. In F1 numeri e simulatori. Ma alla fine la macchina la guida un uomo...».

Cosa di cui in F1 ci si dimentica spesso.
«Gli ingegneri non ascoltano i piloti.

Magari non vedono neppure la pista».

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