Barbara Silbe
Solchi. Tortuosi come tornanti alpini. Profondi come nei campi di giugno. Ripetitivi come una ninna nanna. Segnano una schiena nera, di donna africana, flessuosa, scolpita, dolcissima. Sono curve rigorose dipinte sulla pelle, gioco di masse e squilibri, di contrasti e vibrazioni lucenti, geometrie di un nuovo linguaggio inventato dallartista per ridefinire i limiti dellestetica. Hanno un che di ancestrale ed eterno gli scatti di Isabel Muñoz, affermata fotografa spagnola (nata a Barcellona nel 1950), che da circa ventanni svolge una sua personalissima ricerca interrogandosi sul ruolo del corpo nella nostra società, in bilico tra desiderio, sensualità, bisogno di apparire. Hanno qualcosa di inspiegabile eppure lampante queste foto in bianco e nero; qualcosa di perfetto, ma casuale; di inconscio e programmato, come una ribellione.
La Muñoz è membro dellagenzia francese «Vu» rappresentata in Italia da Grazia Neri. Viene ora celebrata da una mostra milanese, a cura di Dominique Stella, aperta fino al 30 luglio alla Galleria Gruppo Credito Valtellinese di corso Magenta 59 (tel. 02-48008015). Sono esposte 78 immagini emblematiche realizzate in diversi momenti e luoghi del suo pellegrinaggio artistico. Ferma il movimento innaturale di un monaco shaolin, le smorfie concentrate di un tanguero argentino, il ritmo e gli ammiccamenti inconfondibili della danza cubana.
Una serie è dedicata alla lotta turca, unaltra alla passione del flamenco o alleleganza della «capoeira», unaltra ancora allAfrica, dove notevoli sono le assonanze con lo stile fotografico di Ousmane Ndiaye Dago. Dallartista senegalese Isabel Muñoz si discosta nella sua visione tipicamente femminile dellanatomia umana. Inquadra due labbra carnose, un fondoschiena, una scapola, un piede, frammenti di noi scorporati dallinsieme che ci vengono restituiti sotto forma di pura forma plastica, senza invasioni, senza aggressività, senza perseguire il possesso a ogni costo. Perfino i suoi clic dedicati alla corrida sono scevri da mercificazione e machismo. Scremate da qualunque convenzione, le sue sagome definite producono forza e suggestioni trascinanti e ci rimettono in contatto con le nostre intuizioni e i limiti che vorremmo valicare.
Lo sguardo acuto dellartista si sofferma sulla bellezza di una postura, sulla perfezione di un gesto studiato, sulla spontaneità di un salto, tirando fuori ciò che di rituale e immediato cè nella danza, nella volontà di esercitarsi e poi di mettersi alla mercè dello spettatore, rivendicando anche il diritto allerrore, traducendo in immagine concreta quello che noi a volte percepiamo confusamente ma che, generalmente, ci rifiutiamo di vedere davvero: la nostra precarietà.
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