MULISCH Un ateo che fa il tifo per Dio

Bibliofilo, filosofo e un po’ profeta, lo scrittore olandese «figlio di un’ebrea e di un nazista» è pessimista sul futuro: «L’uomo sbaglia a inseguire l’immortalità»

MULISCH Un ateo che fa il tifo per Dio

nostro inviato a Udine
«Leggo anch’io i giornali. E so che ogni volta che si parla di Nobel spunta il mio nome. Mi fa piacere? Certo, ma mi scoccia essere sempre quello che non viene scelto». Bisognerebbe trovare una ragione per assegnare il Nobel all’Olanda. «Una c’è. Nessuno scrittore olandese l’ha mai ricevuto».
Il freddo questa sera ti entra dentro. Non senti quasi più le mani. Sono passate da poco le nove, passeggi sotto i portici in questa città di pietra bianca, il cielo di Udine è una lastra di ghiaccio. Il vecchio olandese con cui stai parlando sembra non farci caso. Ha i capelli bianchi e gli occhi azzurri come un mezzo stregone, prima di uscire avete bevuto della buona grappa, in questi casi serve. Ha 80 anni e con questo cappotto con il bavero alzato, i jeans e il passo sicuro davvero non li dimostra. Si chiama Harry Mulisch e viene da Haarlem, a 20 chilometri da Amsterdam, il luogo che ha dato il nome al più famoso quartiere di New York. Mulisch ha fama di essere molte cose: un bibliofilo, un disincantato signore che ha una passione intellettuale per l’occultismo, un narratore enciclopedico che fa cadere nei suoi romanzi rompicapi di logica e matematica, citazioni dotte, libri rari o mai esistiti, digressioni filosofiche, leggende ebraiche, profezie sacre.
È uno scettico ottimista, uno capace di attraversare il Novecento senza lasciarsi corrompere, un uomo che si sforza di non credere in Dio. «È un atto di riguardo. Se Dio esiste è un farabutto, un egoista, perché ha permesso agli uomini di compiere i più orrendi orrori. L’unica scusa per il suo menefreghismo è l’assenza. Se Dio non esiste allora è giustificato. Non è colpa sua. Possiamo perdonarlo». Blasfemo. Ma Mulisch di Dio non può fare a meno. Ha passato una vita a raccontarlo. Nel bene o nel male è il protagonista di tutti i suoi romanzi. È il Dio che rompe il patto con l’uomo in La scoperta del cielo e manda un messaggero a recuperare sulla Terra, nella cappella di San Giovanni in Laterano a Roma, le tavole della legge, quelle dettate a Mosè come simbolo dell’alleanza. È il Dio assente di Siegfried, il figlio di Hitler. È il Dio che l’uomo cerca di scalzare in La procedura, l’uomo creatore, manipolatore, che si diverte a giocare con i segreti della genetica. È il Dio che Mulisch spera prima o poi d’incontrare, per fargli solo un paio di domande.
Mulisch domani sarà a Percoto, epicentro del premio Nonino, ma intanto in questa notte fredda racconta il suo passato. «Mio padre era un ufficiale austro-ungarico. Ha combattuto proprio qui, in queste montagne, contro voi italiani». Lo guardi e pensi che anche tuo nonno era qui, dall’altra parte della trincea. Lui sorride. «La storia andrebbe guardata solo da lontano. Ora tu ed io siamo qui a passeggiare. I nostri antenati hanno cercato di ammazzarsi. Se uno pensa che alla fine terrore e violenza passano, guarda alla vita con più serenità». Ma la storia di Mulisch padre trova la sua svolta sul fronte occidentale. È acquartierato ad Anversa, in Belgio. È ospite di una famiglia ebrea, che presto si trasferirà ad Amsterdam. Sono banchieri. Qui si innamora di una ragazza di 16 anni, la figlia del padrone di casa. Quando la Grande Guerra finisce si sposano. Harry nasce nel 1927. Ma dieci anni dopo, quando a Berlino già regna il nazismo, la coppia si separa. Harry, caso quasi unico allora, resta a vivere con il padre.
Arriva un’altra guerra. A casa Mulisch si presenta un generale tedesco, con la divisa nazista. È un vecchio commilitone del padre, uno a cui un giorno, in trincea, aveva salvato la vita. Si abbracciano. E sono lacrime e ricordi. Poi il generale dice al suo vecchio amico: «Come te la passi?». «Male. Mia moglie mi ha lasciato. Devo crescere questo ragazzo e sono disoccupato». «Ci penso io». Il lavoro arriva. «Mio padre diventa il direttore di una banca fantasma. I proprietari sono finiti in un lager. È una banca un po’ particolare. Mio padre lo scopre dopo. Tutti gli ebrei rimasti ad Amsterdam devono depositare lì i loro risparmi. Ogni volta che qualcuno di loro scompare il conto viene chiuso e quello che c’era dentro viene spedito in Germania, confiscato dal governo. Mio padre, di fatto, era un collaborazionista. Forse lo ha fatto perché solo in quella posizione poteva salvare il figlio, cioè io. Un giorno, mentre vado a trovare mia madre, lo incontro alla stazione e mi dice: “Non c’è. L’hanno presa insieme ai tuoi nonni”. Una settimana dopo mia madre torna a casa. Salvata dal generale, credo. I miei nonni non torneranno più. Ecco. Ora sai chi sono io, un paradosso vivente. Il figlio di un’ebrea e di un nazista. Spesso penso che mio padre ha fatto la scelta etica sbagliata, ma è grazie a questo peccato che è riuscito a salvare la sua famiglia. Qui c’è il senso dei miei romanzi, quel confine grigio che divide il bene e il male. Ma questo non mi fa cadere nel nichilismo, il più inquietante dei nostri ospiti. E così, anche se non credo in Dio e non sono cattolico, mi fa piacere che dietro l’orizzonte di questo occidente ci siano una teologia, una Chiesa e un Papa».
Mulisch sta vedendo Amsterdam cambiare sotto i suoi occhi di vecchio e non ne è contento: «Ho paura che non ci possiamo permettere più la nostra proverbiale tolleranza. Dopo l’omicidio di Teo van Gogh e altri casi del genere sta mutando tutto. L’Olanda ha perso la sua innocenza». Dice che non gli fa piacere parlare con una donna con il burqa, soprattutto se gli viene il sospetto che sotto ci sia nascosto un uomo con il kalashnikov. «Ma questo è solo un aspetto superficiale. Il problema è che la cultura islamica e quella occidentale siano incompatibili. Il nostro Dio si è ritirato, il loro è tutto». Dio ha rotto l’alleanza perché ha scoperto di non essere più onnipotente. L’uomo si è appropriato del suo potere.
L’ultima sfida è l’immortalità. «L’uomo ci sta provando a sconfiggere la morte e questo sarà il suo errore finale. Non capisce che il senso della vita è proprio nel suo limite. È la morte che illumina e rende vita la vita. L’eternità è la condanna di Dio. È il suo non essere. La forza del cristianesimo è proprio nella soluzione di questo dilemma. Come poteva Dio assaporare la morte e quindi essere vivo? Manda suo figlio nel mondo, lo fa carne e lo fa morire crocifisso sulla croce. È una cosa per cui gli islamici crepano d’invidia. Il loro Dio non muore. L’uomo occidentale nella sua corsa verso l’immortalità sta, di fatto, rinunciando alla sua grandezza».


Leggi l’ultima pagina della Procedura. È qui che si ribalta la prospettiva. L’uomo, dopo aver rubato il segreto dell’embrione primordiale, sussurra a Dio: «Io sono immortale, lui no, pensa quando i suoi occhi si spengono».

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