Murat e l’Unità: due storie diverse

Nel 1929 Gioacchino Volpe, allora responsabile della sezione storica dell’Enciclopedia Treccani, ammoniva i collaboratori a non cercare l’origine del nostro processo unitario in una «galleria dei busti» composta di lontani e improbabili antesignani e invitava a tener sempre presente che l’idea della nazionalità italiana aveva trovato genesi effettiva solo nel movimento liberale dell’800. Il richiamo all’ordine conserva tutta la sua attualità e ci impedisce di considerare Gioacchino Murat, di cui possiamo leggere l’importante biografia di Renata De Lorenzo (Salerno, pagg. 414, euro 24), come un precursore del Risorgimento.
Eppure, il «leone dalla testa d’asino», come lo definì Ugo Foscolo, si trovò a governare il più grande Stato italiano degli inizi dell’800, quando nel 1808 Napoleone lo nominò re di Napoli. Il nuovo monarca fu ben accolto dalla plebe ma piacque anche al ceto medio e alla nobiltà illuminata, sedotti da un vasto piano di riforme che toccarono giustizia civile e penale, finanze, fisco, esercito, istruzione primaria e università. Il prezzo della modernizzazione del Regno del Sud fu costituito, tuttavia, da una rigida centralizzazione amministrativa che inasprì la grave crisi dell’apparato industriale e commerciale. Ancor più evidente fu il fallimento della politica sociale murattiana che non riuscì a favorire la nascita di una piccola proprietà contadina. La nazionalizzazione dello smisurato latifondo ecclesiastico finì per favorire, infatti, soltanto la vecchia nobiltà e i notabili delle province.
Dopo la sconfitta di Lipsia del 19 ottobre 1813, che segnerà il tracollo del Grande Impero, Murat iniziò lo sganciamento dall’ormai inutile tutela napoleonica. Nel gennaio del 1814, stipulava un trattato di alleanza con l’Austria, giustificando il tradimento in nome dell’indipendenza italiana. Poi, essendosi il congresso di Vienna pronunciato per la restaurazione dei Borboni sul trono di Napoli, ruppe le relazioni con Vienna e iniziò l’ultima delle sue cavalcate che lo avrebbe dovuto portare alla conquista dell’intera Penisola.

Il 30 marzo 1815 raggiungeva Rimini e indirizzava un editto a tutti gli Italiani, invitandoli a ingrossare i ranghi della sua armata per scacciare lo straniero. Il manifesto, in cui l’appello alla concordia nazionale di tutte le classi sociali si stemperava in un elenco di vecchi luoghi comuni, cadde nel vuoto e di lì a un mese Murat venne battuto a Tolentino.

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