Musica

Mezzo secolo di hip hop. La lingua del Bronx ora è l'esperanto della musica

Quella sera dell'11 agosto 1973, una delle strade più pericolose del mondo diventa la culla di un genere musicale che cambierà il mondo, come solo il rock'n'roll era riuscito a fare

Mezzo secolo di hip hop. La lingua del Bronx ora è l'esperanto della musica

Quella sera Cindy pensava che a casa sua nel West Bronx ci sarebbe stata solo la festa per il ritorno a scuola. Invece fu una rivoluzione, quella sera dell'11 agosto 1973. Aveva chiesto a suo fratello Clive Campbell detto Dj Kool Herc (fumava pacchetti di Kool ed era grosso come Hercules) di «mettere i dischi» e lui si presentò con due giradischi e un mixer inventando lo «scratching». Era presto, tipo le nove di sera perché tutti avevano sedici o diciassette anni, ma se oggi ovunque a tutte le ore si ascolta l'hip hop, beh, bisogna ringraziare proprio quella festicciola con Coca e patatine al 1520 della lunghissima Sedwick Avenue. Una delle strade più pericolose del mondo diventa la culla di un genere musicale che cambierà il mondo. Come soltanto il rock'n'roll era riuscito a fare, l'hip hop (termine che sembra deridere l'incedere dei militari nelle marce) ha influenzato non soltanto la musica ma pure la società oltre che, naturalmente il costume, ha litigato con la politica e ora la condiziona, ha seminato morti, è penetrato nelle generazioni vestendo suoni sempre distinti ma mai diversi. Dalle feste casalinghe ai block party nel Bronx o a Harlem, fino alla «new school», al «gansta rap», all'«alternative» e alla trap, l'hip hop si è espanso al punto che oggi nessun genere musicale è immune a un codice così fluido da adattarsi e rinnovarsi con il tempo. Un processo lento, lentissimo che è nato quando i Led Zeppelin riempivano gli stadi e i «coliseum» americani e per il resto dell'Occidente la black music era al massimo quella di James Brown e del blues e del soul firmati Motown o Stax Records, non certo quella piena di rabbia, di slang inediti o incomprensibili, di voglia bruciante di sognare diverso. La forza dell'hip hop è che non è soltanto musica, ma è una sottocultura allargata ai graffiti, alla break dance, al beatboxing e al linguaggio, sì al linguaggio, perché la lingua dell'hip hop ormai è l'esperanto più diffuso ovunque tra gli under 50. A proposito: generalmente hip hop e rap si usano come sinonimi ma non lo sono. Il rapping è per forza hip hop. Ma l'hip hop può incorporare altri elementi della cultura del movimento, come Djing, turntablism, scratching eccetera. Oggi che compie mezzo secolo, nel monte Rushmore dell'hip hop sono scolpiti i volti di Dj Kool Herc, di Grandmaster Flash, di Afrikaa Bambaataa e dei The Sugarhill Gang che nel 1979 furono i primi a registrare un brano hip hop, Rapper's delight. In Rapper's delight ci sono le coordinate che ancora adesso, rivedute e (s)correttissime, sono la guida del genere, ossia l'utilizzo di sezioni strumentali di brani preesistenti (in questo caso di Good Times degli Chic) e il cosiddetto «rapping», che è un modo di comunicare sincopato che deriva dal «toasting» giamaicano e che necessariamente mescola il contenuto, il «flow», cioè il ritmo, e la consegna, cioè la cadenza. Cresciuto sottobraccio alla tecnologia (da quando campionamenti e drum machine sono arrivati alla portata di tutti) l'hip hop è stato innanzitutto la negazione dei capisaldi della musica fino ad allora, ossia il virtuosismo vocale o strumentale e la presenza di musicisti. L'hip hop si può creare ovunque, anche da soli, anche senza strumenti. Perciò si può mescolare a tutto. E non a caso tra il 1983 e il 1986, la seconda ondata di rap assorbe il rock e, grazie soprattutto a Run Dmc, LL Cool J (che oggi è Sam Hanna in Ncis Los Angeles), Public Enemy e Beastie Boys (epocale la Walk this way con gli Aerosmith), arriva a bussare alle classifiche mondiali, a prendere nomination ai Grammy, a finire sulla copertina di Rolling Stone. A fine anni '80 il genere prima chiuso nel ghetto era salito sul tetto del mondo e da allora non ne è più sceso. Ha macinato lo sleaze metal dei Guns N'Roses, il grunge dei Nirvana, l'alternative rock fino a diventare il protagonista totale. L'hip hop è un impero miliardario. E lo è diventato anche creando misteri e leggende, offrendo in sacrificio Tupac Shakur («sparato» a Las Vegas l'8 settembre 1996, morì pochi giorni dopo) e The Notorius B.I.G. («sparato» a Los Angeles con una 9 millimetri il 9 marzo del '97) e lanciato artisti che fatturano come multinazionali. Secondo Forbes il rapper più ricco di tutti è Kanye West con 6,6 miliardi di dollari, il secondo è Jay-Z con 1,3 miliardi, il terzo è Sean Combs detto Diddy con 900 milioni e via dicendo. A produrre reddito non sono soltanto dischi o concerti, ma il gigantesco indotto di merchandising, prodotti brandizzati, linee di moda, addirittura cantine che producono vini (Snoop Dogg) o champagne (l'Armand de Brignac di Jay Z). Di certo sono incassi cento o mille volte superiori a quelli dei primi Mc, dei master of cerimonies che davano il ritmo ai block party di fine '70. E questi fatturati sono anche un paradigma di quanto sostanzialmente il rap abbia raggiunto l'obiettivo iniziale, quello della rottura dell'isolamento, dell'uscita (fisica e politica) dal ghetto. Una scintilla decisiva che però oggi è sempre più spesso parodistica, specialmente in Italia dove i «ghetti» sono molto meno definiti che quelli degli anni '80 negli States. Ma senza dubbio il «codice hip hop», anche nella fase «gangsta» con brani come Cop killer (assassino di poliziotti) di Ice T che fece arrabbiare tutti, George Bush compreso, ha aiutato a superare diffidenze razziali che avrebbero impiegato molto più tempo ad assorbirsi. È la forza della musica, una forza che spesso la politica dimentica. E senza dubbio la forza del rap è che, a differenza del rock, è un magma in continua evoluzione, quindi è sempre nuovo, nonostante tutto. Se dalla fine degli anni Novanta è il genere musicale più venduto al mondo (con qualche lieve flessione) è anche vero che i rapper di fine '90 sono lontani anni luce rispetto ai nuovi. Prendete Eminem, il primo «bianco» di strepitoso successo, il primo a «riunificare» da protagonista il popolo rap. Il suo Marhall Mathers Lp del 2000 era una bomba di inaudita violenza (anche verbale) e lui resta un generale a tre stelle del rap. Ma se si mettono a confronto quelle canzoni con quelle del nuovo disco Utopia di Travis Scott, pupillo di Kanye West e nuovo eroe della trap (c'è ancora polemica sul suo concerto al Circo Massimo di Roma del 7 agosto), sembrano di un'era geologica fa. Eppure hanno tutte il marchio hip hop. Insomma, senza rap il mondo sarebbe, penserebbe, voterebbe, si vestirebbe diverso. E probabilmente parlerebbe anche diverso perché, a parte eccezioni come Kendrick Lamar che ha vinto il Premio Pulitzer per la musica, la (multi)lingua del rap si è imposta nel dizionario globale. Aprendo a nuovi, decisivi argomenti. Ma abbassandone il livello e rimanendo stranamente al di fuori della tagliola politicamente corretta che anestetizza la comunicazione. Dopotutto, la musica popolare è spesso «disobbedienza» e, come diceva Sartre, «chi è giovane vuole ricevere ordini per poter poi disobbedire». Jim Morrison o Bob Dylan o Nick Cave disobbedivano facendo poesia.

Adesso si preferisce la poetica della volgarità e chiunque decida alla fine che cosa preferisce.

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