Quando eravamo i Wild Boys

Negli anni Ottanta erano amati e odiati. I critici vedevano in loro il trionfo dell'immagine sulla qualità artistica. E quei video poi... Chi allora li detestava oggi li rivaluta. Forse erano più avanti nell'interpretare il postmoderno. Galeotto fu Maurizio Costanzo...

Quando eravamo i Wild Boys

La sera del venti giugno è afosa. Una umidità anticiclonica, una macchina calda che produce sudore, soprattutto se dentro il golden circle dell'Ippodromo SNAI stai bevendo la terza o quarta birra a un prezzo esagerato. Intorno a te ci sono delle attempate signore con magliette con sopra stampato Sposerò Simon Le Bon. Ma come? Tu quarant'anni lo avresti piuttosto ammazzato Simon Le Bon, invece adesso sei lì ad attendere che si presenti sul palco, ma mica sei diventato anche tu un nostalgico, uno di quelli di com'erano mitici gli anni 80, e che gli viene la lacrima a ricordare il Moncler smanicato o l'impiastro della gommina sui capelli già radi che avevi a venti anni? No, no io Simon Le Bon lo odiavo e avevo anche delle buone ragioni per farlo. Non sono un pentito e tra poco vi dico perché.

Intanto, però, dopo una mezz'ora di ritardo comincia lo show. Una astronave è proiettata sullo schermo, emergono le sagome riconoscibili di quattro dei Fab Five, sono loro, i Duran Duran, che stanno per atterrare sul palcoscenico. Vengono dall'ignoto spazio profondo, come fossero degli Starman evocati tanto tempo fa dal loro demone ispiratore Bowie. Stasera è il compleanno di John Taylor che si presenta con una magrezza anoressica, mentre Nick Rhodes usa uno smartphone per fotografare o riprendere il pubblico (pare una emulazione dell'ultimo Wahrol che andava sempre in giro a scattare polaroid a chiunque capitasse). Al centro c'è Simon, lui pare che abbia appena vuotato una bottiglia di Dom Ruinart Blanc de Blancs, indossa un camicione scuro di lino con le maniche slacciate e penzolanti, mentre i pantaloni sono gialli, rigorosamente slim fit, ma metallici e sgargianti.

Il primo brano è Nightboat, la sonorità elettronica degli esordi, molto poco conosciuta in Italia dove il fenomeno duraniano dipese da ben altre e contestabili ragioni. Quelle per cui a me Simon stava proprio sullo stomaco.

Faccio con voi un passo indietro, vi porto nel fatidico 1985, ossia 40 anni fa. I Duran Duran erano già noti, anzi. A quei tempi Carlo Massarini conduce un celebre programma, Mr Fantasy, dove vengono trasmessi i primi video musicali. In Italia non c'è MTV, né quelle che saranno per un breve periodo le sue versioni italiane tipo Deejay Television o Videomusic. In realtà si fa molta polemica su questo tipo di espressione. De Gregori, per esempio, è assolutamente contrario. Lui non va nemmeno in televisione, figuriamoci i video. Si dice che la musica deve essere ascoltata e apprezzata in quanto tale, che l'immagine è una contraffazione, che in questo modo si affermano i personaggi più ridicoli. Tutti argomenti che adesso appaiono sconclusionati e censori, ma facevano presa. In realtà la musica pop è inseparabile dal video, soprattutto dalla forma televisiva. Ve li immaginate Elvis e i Beatles senza le loro epifanie da Ed Sullivan. Oppure David Bowie sarebbe stato lui senza essere andato a Top of the pops quel 6 luglio del 1972 alle 19,30 e ci sarebbero stati i Duran Duran senza che quel giorno Nick Rhodes fosse ipnotizzato davanti alla tivù a vedere Ziggy Stardust mentre canta il ritornello di Starman, quella magnifica citazione di Judy Garland e del Mago di Oz, mentre se ne sta ambiguamente abbracciato al suo chitarrista?

In altri termini al principio del rock c'è il video o se volete l'idea che la più concreta realizzazione della wagneriana opera d'arte totale sia proprio il rock.

Torniamo a Massarini, perché io lo seguivo ogni settimana. Ed è lì che scopro i Duran Duran. In pratica sono il gruppo più innovativo del momento perché girano dei video lussuosi, esotici, spettacolari, con grandi investimenti. All'inizio si trattava quasi di videoarte sperimentale tipo quella che trovavi alla Biennale. Naturalmente Bowie, il solito geniale precursore, aveva girato Ashes to Ashes, ma se lo paragoni a cosa fanno i Duran Duran siamo in una nuovo eone. Non ci sono più le immagini a bassa definizione, sgranate, basate sui soli effetti tipo chroma key alla Valerio Lazarov di Tilt. I Duran Duran fanno narrazione, usano l'immagine come generata coerentemente dalle atmosfere sonore delle loro canzoni. I loro testi sono a volte incomprensibili, solo suggestivi, come se le parole non si staccassero dai suoni e avessero una precisione semantica. Al contrario, però se guardi i loro più celebri video da Rio a New Moon on Monday sembra che si capisca tutto. Cosa sarebbero i Duran Duran senza la forza magnetica delle loro produzioni video?

Il moralismo di allora gli contestava proprio questo. Ma insomma fanno musica questi qua o sono solo dei fotomodelli che si vestono in modo improbabile per vendere la loro scadente merce elettronica? A dire il vero non era per niente scadente, in particolare c'è un brano in chiusura dell'album Rio che si può considerare un vero capolavoro. In Italia non se lo sono mai calcolato e, infatti, al concerto di Milano nessuno si lamenta, tranne il sottoscritto, che non si trovi nella scaletta. Sto parlando di The Chauffer. Anche in questo caso, però, vi consiglio di scoprire la musica dal video originale. La scena è quella di un auto lussuosa e di rappresentanza tipo una Rolls Royce del secolo scorso. C'è un autista in divisa che guida, mentre sul sedile posteriore una donna giovane, elegante, con un vestito però succinto e scoperti riferimenti feticistici. Il loro viaggio è verso una attrazione imponderabile, segreta, che pulsa perfino nella meccanica nascosta nel motore (cade qui l'impressionante acuto di Simon Le Bon che quasi urla inspiegabilmente Sing Blue Silver, cioè quasi chiedendo all'auto di unirsi a lui in questo misteriosofico inno edonistico). A un certo punto le metamorfosi si moltiplicano, tutto sta nella prospettiva dell'abisso. Al termine della corsa la passeggera incontra un'altra donna altrettanto fascinosa e cominciano una danza che mima un amplesso. Lo chauffer nel frattempo è diventato pure lui una donna, si spoglia, resta a seni nudi, ma minuti, mentre il suo corpo è spremuto in un busto. Tutto è girato in un bianco e nero onirico e forte di contrasto. In quello stesso anno Wim Wenders nello Stato delle cose aveva fatto dire al proprio protagonista che la realtà è pure a colori, ma il realismo è solo in bianco è nero. Pensando a The Chauffer sono d'accordo. Naturalmente, però, se stiamo al puro discorso musicale i Duran non erano degli innovatori in sé stessi, anzi avevano una grande preparazione e furbizia nell'usare efficacemente e imporre sul mercato idee spesso già presenti, ma in una veste che però, va detto, era solo duraniana. Ed era questo che non sopportavo e non capivo.

Nel 1985 mi ero trasferito a Milano, l'anno della grande nevicata e del crollo del tetto del palasport, avevo perfino comprato dei Moon Boot perché utili a passeggiare per la città quando la neve era alta venti centimetri. Li avrò usati un paio di volte in tutto, ma quella camminata leggera e lunare mi faceva sentire di un altro mondo. Fu al festival di Sanremo di quell'anno che i Duran Duran esplosero in Italia. Il loro ultimo pezzo si chiamava Wild Boys, ma nessuno sapeva che Burroughs aveva scritto un capolavoro letterario che s'intitolava così. Quello che conta, infatti, è la superficie e forse fu allora che si formò in me la mentalità postmoderna per cui la profondità dell'uomo è la sua pelle. I wild boys erano gli stessi Duran Duran così come apparivano in quel kolossal video alla maniera di Mad max. Lo scenario post-atomico corrispondeva a quell'ossessione estetica per il day after, cioè per immaginare cosa sarebbe stato del mondo dopo una esplosione nucleare.

I wild boys sono i sopravvissuti, i predatori del mondo perduto. Questa nuova umanità da videoclip, con look- oggi si direbbe outfit - da guerriglieri urbani sarebbe sbarcata con clamore a Sanremo. Fu Pippo Baudo il demiurgo della gigantesca consacrazione nazionalpopolare dei Duran Duran, che, in effetti, preceduti da un successo mondiale per ragioni diverse e poco apprezzate in Italia, si trasformarono in una mania che ricalcava i fasti dei Beatles di venti anni prima. I Duran Duran, che si esibiscono a Sanremo, sfondano e diventano il mito generazionale più potente del momento.

Mentre Sanremo incoronava i Ricchi e Poveri e premiava col telegatto i Duran Duran, a me toccava ogni mattina svegliarmi in un incubo trash. Per convincere i miei genitori a lasciarmi andare a vivere a Milano accettai di scambiare la mia camera da letto con quella di una ragazza che voleva tornare a Catania, dove avevo fatto la Maturità e dove stavano i miei, perché si era fidanzata con un siciliano. Mi trovai a vivere nella sua stanza dove non potevo toccare nulla dell'arredamento. I muri erano completamente tappezzati di foto dei Duran Duran. Perlopiù poster oppure solo pagine strappate da riviste femminili per teenager. La più nota portava un nome memorabile: Cioè. Mi rifiutavo di aderire a una sconcezza simile, mi rotolavo dal ridere compiaciuto quando leggevo che Mick Jagger avesse apostrofato George Michael come un parrucchiere, invece che come un musicista. Queste boyband si meritavano ogni genere di sberleffo. Tutto quel mondo patinato, dominato dalla fatuità dell'abito e dal culto dell'immagine era un simulacro da abbattere. Il mio gesto quotidiano di ribellione si compiva facendo suonare sul piatto dell'apparecchio stereofonico, che pure c'era in quella camera da letto da ragazza adolescenti anni ottanta, il vinile graffiato di Ummagumma dei Pink Floyd. Sceglievo l'esecuzione dal vivo di Careful with That Axe Eugene, quella in cui a un certo punto si sente un urlo ancestrale amplificato e che servì a Michelangelo Antonioni per commentare musicalmente la celebre scena dell'esplosione della villa dei capitalisti californiani in Zabriskie Point. Io mi applicavo con la mente, cullato da quell'urlo catartico, a immaginare l'esplosione di quella cameretta.Una furia vendicatrice. Dopo tanto odio gratuito si può capire che mi ci è voluto molto per ribaltare quel giudizio senza appello, quell'intolleranza fanatica, assai giovanile, che aveva scelto nei Duran Duran il nemico estetico di un'intera epoca. Mi ostinavo a non riconoscere valore artistico a quel che invece dominava lo sfavillante estetismo di quello scorcio finale dei tempi della Guerra Fredda. Siamo in piano edonismo reaganiano, io stesso arrotolo in modo improbabile le maniche delle mia giacche o mi sottopongo a pericoloso sedute di abbronzatura artificiale. Vado, si diceva, alle Lampados. Alcuni abbronzano solo il viso, mentre il resto rimane sbiadito, pallido, inguardabile carne senza belletto. Nei club si entra solo se sei ben accompagnato, al Plastic il buttafuori seleziona in modo implacabile. Sogniamo le primissime top model, adoriamo le supreme incarnazioni dell'eterno femminino. Giriamo per via Montenapoleone, guardiamo i film dei Vanzina con Carol Alt e Reneè Simonsen. Negli anni Ottanta comincio a studiare filosofia, leggo Nietzsche, scopro il decostruttivismo francese e gli Yale studies; divento laico, nichilista, mezzo craxiano. Non è che forse mi sono sbagliato sui Duran Duran?

Il primo dubbio arriva durante una puntata speciale del Maurizio Costanzo Show. Nel 1987 sta per iniziare la prima tournée dei Duran Duran in Italia. Le famiglie sono preoccupate, soprattutto si teme che alcune giovanissime adolescenti, profondamente turbate dall'appeal della band inglese, possano fuggire di casa, seguire le orme di Clizia, la protagonista dell'instant movie Sposerò Simon Le Bon, mettendosi in grave pericolo pur di raggiungere gli stadi dove si terranno gli attesissimi concerti. Costanzo ci fa una puntata sopra, anzi fa lo scoop, riesce a intervistare in esclusiva, grazie all'intervento dello sponsor, una notissima marca di jeans per paninari, i tre principali membri del gruppo: Simon, John e Nick. La scena si svolge in una suite del Quisisana di Capri. Costanzo esordisce in modo cinico, flemmatico, forse canzonatorio, con una frase insostenibile: siamo di fronte al Mito. Ha lo stesso scetticismo che i latini probabilmente nutrivano per le loro stesse divinità che adoravano e un po' schernivano. La band ovviamente non capisce nulla della situazione e Costanzo non sa nulla di musica, e lo dice pure, e non sa una parola di inglese. Questo gli permette di chiosare alla romanesca, d'inframezzare qua e là il suo pensiero e di strizzare l'occhio all'italiano di mezza età che non vede l'ora di dare una ridimensionata a questi tre ragazzotti di successo. Naturalmente sto dalla parte di Costanzo, ma mentre l'intervista va avanti mi accorgo che, invece, quello che i Duran Duran stanno dicendo è molto intelligente. Alla fine conclude così anche Costanzo. Loro sono una impresa che cerca di usare tutti i mezzi efficaci per ottenere il consenso, nello stesso modo in cui si muoverebbe una macchina elettorale. Il paragone è talmente calzante, forse sfuggito di mano, che la chiaroveggenza di Costanzo gli fa concludere seriamente che se loro si candidassero al governo del regno Unito con ogni probabilità la spunterebbero. Adesso, però, avevo il dubbio che i Duran Duran avessero un modello molto avanzato di comprensione di cosa fosse una band nell'epoca del rock maturo. Non era il fatto che usassero l'elettronica, o arrangiamenti già sperimentati tipo Bryan Ferry, Eno o i Japan, ma che facevano tutto come se fosse una gigantesca campagna spettacolare dove ogni cosa aveva la massima importanza. Qualsiasi dettaglio di un vestito, di una acconciatura, di una luce, di un video, di una dichiarazione in una intervista, tutto faceva parte dell'impresa artistica di una band. Ogni purismo era retroguardia, ogni presunta alternativa era inadatta allo Zeitgeist, a quel bagliore straordinario ed effimero che in pochi anni erano stati in grado di emanare e diffondere fino nei luoghi più provinciali dell'Occidente come l'Italia degli anni Ottanta.

Era stato raggiunto l'acme, dopo quel tour il fenomeno duraniano terminò. Nel 1988 comprai il mio primo vinile dei Duran Duran. Il disco sarebbe stato un fiasco, l'inizio inevitabile del Gotterdammerung. Per me non erano mai stati idoli, ma da allora l'ascolto dei loro dischi cominciò a essere una lenta riscoperta e un tentativo d'autocritica: su di loro, su ciò che ero stato, su una intera età del mondo. Perché appunto quello erano stati, come i Sex Pistols o i Pink Floyd, anche se qualcuno storcerà il naso e si fisserà a dire che la loro musica non ha la stessa qualità.

Ma provate solo per un attimo ad ascoltare Hungry Like the Wolf o Save a Prayer e si aprirà per voi immediatamente un mondo. E ciò che rende meno miserabili le nostre esistenze non sono quei motivetti in grado di creare mondi?

Mi ero sbagliato, e adesso so che i Wild boys li aveva sognati per primo Bill Burroughs.

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