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Il ritorno dei CCCP. A Berlino suona l’ora felice della musica rock italiana

Il ritorno dei CCCP. A Berlino suona l’ora felice della musica rock italiana

Berlino Est era un carcere a cielo aperto. Oggi pare divisa in due zone. La cintura esterna è un susseguirsi di condomini -casermoni e moschee. Più vicino al centro, lungo il fiume Sprea, magazzini e cantieri d’epoca comunista, per la pena del contrappasso, sono diventati sedi delle aziende multinazionali: Siemens, Coca-Cola, Universal.
All’Astra Kulturhaus, un incrocio tra una balera e un centro sociale, i Cccp, il più significativo gruppo musicale degli anni Ottanta, hanno celebrato per tre giorni, oggi l’ultimo, il ritorno sulle scene dopo quarant’anni. Lo fanno dove tutto è iniziato: a Berlino, appunto, si incontrarono due ragazzi di Reggio Emilia, Massimo Zambo ni, chitarra, e Giovanni Lindo Ferretti, voce. I Cccp hanno lasciato alcuni capolavori, in ordine sparso: Io sto bene, Curami, Spara Jurij, Mi ami?, Annarella, Amandoti... Può bastare. I Cccp sono anche un equivoco. Presentarsi come sostenitori dell’ortodossia sovietica nella rossa Emilia era una provocazione, perché i Cccp si proclamavano fedeli alla linea, ma la linea (politica) non c’era. Quella estetica invece c’era, come abbiamo scoperto a Berlino, dove i Cccp si sono presentati come ai vecchi tempi, con i “fantasisti” del palco, Fatur, artista del popolo e Annarella, benemerita soubrette.

Pronti, via. Il rumore di Stati di agitazione e l’eterea Libera me domine sono una doppietta che mette in chiaro un paio di cose: travaglio esistenziale e immersione nella spiritualità sono inevitabilmente connessi. Anni fa, Ferretti ha avuto il coraggio di tirare la sua rinnovata fede in faccia al suo pubblico, che si sente “puro” nell’essere ateo e di sinistra.
Dopo anni di polemica, alla quale Ferretti non ha preso parte, pur essendone l’oggetto, la pace è fatta. «Siamo diversi. Meglio così. Preserviamo le differenze» dice Giovanni Lindo dal palco. Il giornalista Andrea Scanzi recita un breve monologo ed è bravissimo (davvero) a incassare la prevedibile bordata di insulti nell’unico momento punk dello spettacolo, in cui si accende la tensione tra palco e platea. Il con certo fila liscio, Emilia Paranoica e Punk Islam/Radio Kabul sono parzialmente riscritte da Ferretti, ma in generale i vecchi inni sono ancora attuali, anche se, influenzati dalla storia personale e dalla Storia, assumono significati nuovi. Lo slogan: «Produci, consuma, crepa» (da Morire) cantato dall’intera sala a squarciagola forse è nato come critica all’alienazione da capitalismo ma oggi è una critica all’alienazione da materialismo nichilista. Rispetto ai Cccp di quarant’anni fa, c’è un tessuto sonoro molto più ricco, creato dai musicisti che accompagnano il tour.

Anche la chitarra di Zamboni è più corposa e meno gelida. Il pubblico è presto conquistato, era lì per quello, lasciarsi conquistare. Ma lo spettacolo c’è ed è bello.
Non è certo un karaoke di musica punk, è un progetto articolato, che comprende video, brevi letture, lo sporco cabaret di Fatur, l’eleganza di Annarella.
All’Astra Kulturhaus ci sono famiglie intere, qualche cresta punk, un rasta, una ragazza tatuata che tutti scambiano per Mara Redeghieri degli Ustmamò, Vasco Brondi alias Le luci della centrale elettrica, vecchi pancioni che si fanno i selfie ma urlano «tifiamo rivolta», signore che, dopo essersi scatenate, tornano nelle retrovie a sedersi. Molti pelati. Molte teste bianche. Speriamo che qualcuno abbia allertato il reparto traumatologico dell’ospedale più vicino, in caso di pogo selvaggio ci saranno parecchie rotule da aggiustare. Durante Curami partono gli spintoni per qualche secondo, un piccolo caos sufficiente per strapparmi una giacca (da motociclista) e finire tra le braccia di un ragazzo dallo sguardo simpatico. Ah, ma io questo lo conosco, ho parlato con lui sull’aereo. In inglese. Ci salutiamo. È di Reggio Emilia. Eccola qua. La italianissima provincia, soprattutto rappresentata dalla Bassa padana, dove i maiali sono più numerosi degli uomini, e a volte è difficile stabilire dove finiscano gli uomini e inizino i maiali. Sazi e disperati, noi provinciali siamo arrivati nella moderna Berlino, che non sa cosa farsene di noi, siamo gente di antica fattura, l’idea stessa di locale alla moda o alternativo ci fa alzare il sopracciglio e innesca la battuta sarcastica.
“Alla moda” di chi? “Alternativo” a cosa? Quanta grettezza e quanta saggezza c’è in noi. In complesso, questo concerto è una splendida occasione per capire che non siamo mai stati gli uomini di una volta, come talvolta ci illudiamo. Le parole dei Cccp ci fanno sentire la stessa paura, la stessa rabbia e la stessa inadeguatezza di quando andavamo in bicicletta perché non avevamo il coraggio di rubare il Ciao o il Bravo al fratello maggiore. È il miglior complimento che si può fare ai Cccp di oggi. In quanto al pubblico, a noi, non abbiamo mai vissuto un’epoca eroica, di ribellione, e se anche fosse, non avremmo comunque resistito alla tentazione di dissacrarla noi stessi, che abbiamo così tanta paura di essere ridicoli da vedere il ridicolo in tutto.
La festa è finita, ma non andiamo in pace. Grazie a Marta Falcon, facciamo un giro nel backstage dove incontriamo, assieme ad altri colleghi, la band al completo. In breve. Zamboni e Annarella spiegano che l’attesissimo tour italiano sarà diverso dalle serate berlinesi che resteranno un evento unico. Ferretti aggiunge che la scaletta potrebbe vertere anche sull’ultimo album dei Cccp, Epica Etica Etnica Pathos, mai portato in concerto. Brani nuovi, al momento, non ce ne sono, tranne quelli ritrovati in un nastro del 1983 ora pubblicato col titolo Altro che nuovo nuovo. Sono Onde e Oi Oi Oi.
Tutti siamo stati colpiti dal nuovo finale di Radio Kabul: «Guerra Guerra Guerra.
All’erta sto come un russo nel Donbass come un armeno del Nagorno-Karabak».
Ecco il Lindo pensiero: «Non potevo cantare alcuni brani con le stesse parole di allora. In Punk Islam ho levato “Allah è grande e Gheddafi è il suo profeta”. Oggi Allah è grande, dopo tutto quello che è successo, inclusa la morte violenta di Gheddafi, ha un altro significato. I riferimenti all’Armenia e al Donbass, in Radio Kabul, sono evocazioni di problemi che mi toccano. Mi tocca il silenzio sulla tragedia armena. L’Armenia è il più antico Paese cristiano, e paga da sempre un prezzo altissimo nella indifferenza generale.


Mi tocca la versione unilaterale dei fatti sulle vicende del Donbass: vogliamo ammettere almeno che la situazione è più problematica e complessa di come viene raccontata? Non voglio assistere alla menzogna o alla omissione senza reagire, non voglio finire tra gli ignavi». E questo è il secondo momento punk rock della serata. Felicitazioni.

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