Il «Nabucco» di Muti intonato per tutti i moderni patrioti del melodramma

Questa volta il critico musicale deve essere più cronista che recensore di un alto avvenimento culturale. Basta lasciare la parola a Riccardo Muti che, prima dell’inizio di questo Nabucco da lui splendidamente predisposto per il Teatro dell’Opera di Roma, ha aggiunto la sua autorevole voce a quanti hanno deplorato l’ulteriore ignominiosa (appropriato aggettivo adoperato da Muti) sottrazione dei fondi che lo Stato deve fornire per la sopravvivenza di questo spettacolo, il melodramma, che è «elemento fondante della nostra identità nazionale». La ferma opposizione a tale decisione ministeriale era già stata proclamata dal Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, prima della levata del sipario, con la veemenza oratoria che gli è propria. A nome delle istituzioni musicali romane (Opera e Accademia Nazionale di Santa Cecilia), il primo cittadino dell’Urbe ha annunciato uno «stato di mobilità», denunciando l’insopportabile e non più accettabile situazione di tutte le fondazioni lirico-sinfoniche italiane.
Le parole di Muti hanno trasformato il pubblico in provvisori patrioti del melodramma (invitiamo comunque le matrone romane a interrompere il cicaleccio quando inizia lo spettacolo e a verificare lo spegnimento del cellulare). Il rischio che l’esecuzione del Nabucco si trasformasse in una veglia presente salma o, all’opposto, in una demagogica requisitoria, è stato evitato dal combinato disposto fra l’impeccabile esecuzione (non smentita dalla regia ordinata di Jean-Paul Scarpitta e dai doviziosi costumi di Maurizio Millenotti) e la forza dirompente dell’opera con cui Verdi inizia il suo meraviglioso cammino che, con Falstaff schiuderà le porte al Novecento. Alla replica del momento culminante - si capisce alludiamo al Va’ pensiero - il maestro Muti ha invitato il pubblico ad unirsi alle masse artistiche. Confessiamo che ascoltare parecchie compunte signore cantare con voce impostata e a tempo i versi del Solera ci ha riportato per un attimo a quella stagione di speranze e illusioni in cui nacque Nabucco.
Il momento biblico e il desiderio di riscatto che tanti palpiti sollevarono fra i patrioti milanesi, si è manifestato in un frangente drammatico non solo per la Musica. E il pensiero intanto correva ai colpiti fratelli giapponesi, che tanto amano e onorano l’Opera italiana. E ora rientriamo nei panni del cosiddetto critico musicale. La compagnia di canto, raccolta intorno alla sempre rassicurante presenza scenica dell’indomito Leo Nucci (Nabucco), era ben amalgamata e omogenea. Molto apprezzata la qualità vocale e l’intonazione del basso Dmitrij Beloselskij (Zaccaria), soprattutto nella perigliosa preghiera della seconda parte, cesellata in orchestra da Muti e sostenuta dai necessari «piano» vocali. Solida Csilla Boross nell’arduo ruolo di Abigaille. La coppia amorosa Fenena/Ismaele trovava nelle gradevoli e giovanili voci di Antonio Poli e Anna Malavasi la necessaria freschezza. Su tutti svettava la preparazione musicale del Coro, in cui si avverte l’unità d’intenti fra Muti e il maestro del coro, Roberto Gabbiani, un musicista che emerge sempre nei momenti oratoriali.
Alle lodi per le gagliarde e vibranti cabalette o al travolgente finale della prima parte, anteporremo la cura con cui Muti ha trattato i momenti strumentali più originali e gli «accompagnamenti» (il tanto vituperato dai superficiali zum-pa-pà). Non smetteremo mai di ricordare che in Verdi quegli accompagnamenti sono abbellimenti.

Lo diceva un artista che ha rivoluzionato l’interpretazione del melodramma: Arturo Toscanini. Riprodurre, come Riccardo Muti ha fatto, quel modello, è il giusto onore che a Verdi, protagonista del Risorgimento degli Italiani, si deve.

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