Cultura e Spettacoli

Napoli, una cronaca nel nome dell’amore

«Dieci» di Andrej Longo è il racconto di una città dove la bussola morale pare impazzita

Dalla sera in cui nei teatri romani fu servito il melmoso caffè di Natale in casa Cupiello, lasciando di stucco le mogli dei gerarchi nelle loro scintillanti toilettes, Napoli non ha smesso di inviare dei periodici memento al «palazzo». Contro l'euforia della liberazione nelle pagine di Malaparte o di Domenico Rea, e più di recente contro la fantasmagoria dell’era Bassolino nelle opere della Parrella o di Saviano.
Esce ora da Adelphi un volume di Andrej Longo (Dieci, 144 pagg., 15 euro) che seguendo il filo dei dieci comandamenti denuncia qualcosa di più radicale della refrattarietà napoletana alle onde della modernità. Cristo non si è fermato al di qua di Napoli, sembra dire Longo nei suoi racconti, anzi è preferibile scansare la nozione di arretratezza. Napoli è piuttosto il luogo dove le tavole della legge, quando sono rispettate, si capovolgono nel loro contrario. La bussola morale del decalogo, in altre parole, è impazzita e punta verso il Sud.
Nelle pagine dedicate al quarto comandamento, «onora il padre e la madre», ci appare una donna gravemente malata che la notte grida «come un animale squartato».
Al pari della sibilla di Plutarco chiede soltanto una cosa: che qualcuno la aiuti a morire. Altrove la soluzione avrebbe assunto la forma di un medico compiacente, o di un suicidio. Qui sarà il figlio tredicenne a sbrigarsela: «Mi è tornato in mente di quando ho premuto il cuscino e di come lei muoveva le braccia. Ho pensato che quel momento non me lo scordavo più».
Un medesimo, atroce capovolgimento del dettato biblico si ripete negli altri racconti, che dispiegano tutte le varianti possibili del fraintendimento: l’interpretazione derisoria, l'equivoco di comodo, il falso ideologico.
In «Non uccidere» un camorrista passa la serata con il figlio davanti al televisore giocando ai videogames: non farà altro, si può dire, che uccidere in effigie. «Non commettere atti impuri» è la cronaca di un aborto seguito ad uno stupro svoltosi tra le mura domestiche. «Non desiderare la roba d’altri», invece, un’espiazione dove il rimedio è peggiore del male: dopo aver distrutto la fuoriserie di un potente malavitoso un balordo paga l’errore piegandosi ad assassinare l’amico incolpevole.
Solo un racconto lascia spazio alla speranza. È il «Non rubare». Qui lo sguardo mite di un vecchio derubato, la sua orientale impassibilità di fronte alla spietatezza del rapinatore sembra evocare un’antica ed impervia saggezza: non c’è pace dove si oppone, omeopaticamente, male al male.


Rinunciando a difendersi ed anzi trasformandosi in sacco di lana per accogliere più facilmente il coltello che gli trafigge il fianco il vecchio ribadisce anche un’altra verità: che il nome stesso di comandamento trasuda violenza; e che non è dal decreto, dall’ordine, dalla sentenza che bisogna attendersi la salvezza, ma da qualcosa che un tardo critico della legge mosaica avrebbe forse chiamato, semplicemente, amore.

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