Massimo Malpica
Gian Marco Chiocci
L’attacco al premier, persona offesa e sputtanata a mezzo stampa, passa attraverso un’ordinanza di custodia cautelare ricca di abbagli, controsensi procedurali, sviste, insolite dimenticanze. Si colpiscono gli imputati Gianpaolo Tarantini (sua moglie Angela detta Nicla) e Walter Lavitola per colpire il bersaglio grosso «vittima» di una presunta estorsione che però è negata dall’estorto (Berlusconi) e dal suo estorsore (Tarantini).
MANETTE A OROLOGERIA
Se dalla lettura delle carte le esigenze cautelari sembrano effettivamente sussistere per l’editore de l’Avanti, Lavitola, che si trova all’estero per paura di finire in cella nella vicenda P4 (come riscontrato dalle chiacchiere oltreoceano con la signora Tarantini) per il coimputato barese e la consorte le esigenze cautelari tali da giustificare un passaggio a Poggioreale, scarseggiano. Perché non potevano scappare essendo controllati dalla Digos notte e giorno, da mesi, intercettati, pedinati ovunque. Dagli atti depositati non risulta una sola frase in cui la coppia manifesta la volontà di andare via dall’Italia. Anzi, Tarantini, solo 12 ore prima di finire arrestato (e questo la procura lo sa in diretta avendo sotto controllo i suoi telefoni) si reca dal difensore per predisporre una memoria da depositare al gip con la richiesta di essere interrogato. Ancor meno «logiche», per il codice penale (art.275, comma 4 cpp) sono le manette per la moglie. La legge infatti prevede che per le madri di figli dell’età inferiore di tre anni (e la figlia rimasta con la nonna di anni ne ha appena due) non può essere disposta la carcerazione salvo «esigenze di eccezionale rilevanza». Bene. Dalla lettura delle carte non emerge alcuna eccezionale rilevanza da giustificare un trattamento così violento, limitativo della libertà personale. Né il gip, una donna, ha ritenuto di dover spendere una parola per «motivare» queste (inesistenti) «eccezionali» esigenze. Con una moglie in carcere, una figlia abbandonata, col divieto di incontro con i propri legali, non è difficile intuire lo stato in cui il «cattivo» Tarantini sarà costretto a rispondere alle domande dei pm.
NAPOLI NON PUÒ INDAGARE
Il gip ritiene competente territorialmente Napoli, nonostante tutte le intercettazioni telefoniche in mano al gip, e dicasi tutte, facciano riferimento a fatti e circostanze accadute sempre a Roma, o al massimo a Milano. Nonostante ciò il giudice riesce a scrivere «come non sia possibile individuare con certezza il luogo di consumazione del reato di estorsione, essendo la relativa condotta estremamente fluida ed articolata e posta in essere in diverse città dello Stato italiano», tra cui Napoli. Il gip è talmente convinto che si debba indagare sotto al Vesuvio che non porta un solo riscontro di quest’ultimo procedimento tant’è che per radicare la competenza si appoggia all’inchiesta napoletana sulla P4 dove Lavitola è indagato. Vi sarebbe una vis attractiva forte tra i due fascicoli, che però irrimediabilmente si indebolisce con le posizioni di Tarantini e della moglie, che con la P4 non c’entrano nulla. Forte è dunque il sospetto che si voglia coinvolgere Berlusconi in una vicenda (la P4) alla quale è del tutto estraneo, come le carte dimostrano e come lo stesso premier in modo colorito ribadisce nell’intercettazione con Lavitola. Sulla competenza è bene che i lettori sappiano (perché il gip sembra non essersene accorto) che le somme di denaro che lo stesso premier non ha mai negato di aver consegnato a Tarantini, sono state ritirate – per il tramite della segretaria del premier, Marinella Brambilla - da un collaboratore peruviano di Lavitola, tale Chavez, presso il domicilio romano di palazzo Grazioli, secondo i tempi e i modi che la segretaria personale di Berlusconi concordava con Lavitola.
LA SVISTA SUI PAGAMENTI
Il riscontro è ovunque nell’ordinanza. Pagina 18. Telefonata del 23 giugno 2011, ore 10.15, tra Lavitola e Marinella sull’utenza romana della segretaria del premier, utenza numero 06.67869(…). Lavitola: «No, adesso poveretto lo faccio tornare a casa…» riferendosi al collaboratore che deve ritirare i soldi e che si è presentato a palazzo Grazioli. Marinella: «Domani mattina va bene, però domani mattina entro le 11, dalle 9 alle 11». Segue telefonata di conferma tra Lavitola e il collaboratore peruviano. Anche le conversazioni successive si riferiscono a consegne di somme di denaro avvenute sempre a Roma. Di più. Nel suo memoriale Tarantini fa riferimento a somme di denaro che mensilmente la moglie ritirava a Roma presso gli uffici di Lavitola in via del Corso. E quindi appare surreale quanto il gip annota a pagina 37 laddove scrive che «a tale appannaggio provvede Berlusconi, servendosi del Lavitola, in forme, tempi e luoghi finora non accertati». Il luogo della consumazione del presunto reato è così oscuro che la Digos nell’informativa dell’11 luglio lo evidenzia pedinando la moglie di Tarantini il 29 giugno, così come il gip nell’ordinanza a pagina 90: «Significativo che Lavitola contatti quotidianamente i suoi collaboratori, sodali e complici, ai quali impartisce precise disposizioni in particolare in ordine alle ingenti somme da andare a prendere a Palazzo Grazioli».
L’ESTORSIONE CHE NON C’È
Il reato di estorsione (629 cpp) configura il reato di estorsione quando un soggetto «mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o a omettere qualcosa». Il presidente Berlusconi, dieci giorni prima dell’arresto di Tarantini, interpellato da Panorama ha negato l’estorsione. Spiega d’aver voluto aiutare spontaneamente il manager delle protesi sanitarie. Il presunto estortore, Gianpaolo Tarantini, nel suo memoriale nega qualsiasi forma di pressione sul presidente. Si dirà, ma esistono telefonate schiaccianti. E qui viene il bello. Per dimostrarlo nell’ordinanza vengono infilate in un crescendo enfatico intercettazioni che appartengono a periodi diversi, mischiate ad arte. Quando Lavitola, con riferimento a Berlusconi, a Tarantini dice «più merda c’è e meglio è», «teniamolo sulla corda», «in ginocchio», «con le spalle al muro», l’estorsione non può essere in atto perché la somma di denaro di 500mila euro era già stata consegnata diversi mesi prima (marzo). Abilmente nell’ordinanza vengono «anticipate» conversazioni datate successivamente per sostenere l’ipotesi dell’estorsione. Si tratta, in realtà, di chiacchierate dove Tarantini si lamentava con Lavitola perché pensava (non sapendo del doppio gioco dell’editore) che Berlusconi non lo avesse aiutato come promesso in precedenza. E ciò trova conferma nell’ultimo incontro tra il premier e l’imprenditore del 9 agosto 2011 nel quale Tarantini riferisce di aver ringraziato il presidente e che, a detta di Berlusconi, c’era stato un equivoco sul mancato arrivo dei soldi (trattenuti da Lavitola). L’estorto nega pubblicamente di aver subito un estorsione. L’estortore conferma di aver ricevuto i soldi a titolo di aiuto e chiede scusa all’estorto. Dov’è l’estorsione?
LAVITOLA CHOC
L’editore si presta a mille interpretazioni. Non solo truffa Tarantini e tenta di truffare il premier convincendo lo stesso Tarantini che non è affidabile. Poi millanta frequentazioni con la Cia e soprattutto conoscenze in procura a Napoli («adesso arrestano Gianni Letta», «Mi vogliono arrestare» per la P4) riferendo notizie che si riveleranno assolutamente farlocche. Per i pm, però, se prima Lavitola «sembra» in grado di avere notizie, alla fine dell’ordinanza è un «riservato informatore» in grado di fornire informazioni che riguardano terzi ma che appaiono di «rilevante interesse per lo stesso Berlusconi». Il quale, però, al telefono, ogni qualvolta Lavitola prova a parlare di questioni giudiziarie, ribatte che a lui non interessa sapere nulla: «Non me ne fotte niente, hai capito?».
PATTEGGIAMENTO-FARSA
a moneta di scambio della presunta estorsione, secondo i pm, consisterebbe nella minaccia da parte di Tarantini di mutare la sua strategia nel processo barese che lo vede indagato per sfruttamento della prostituzione. In particolare Tarantini avrebbe rappresentato la sua volontà di patteggiare (come avrebbero caldeggiato i legali del premier) in cambio di denaro, per impedire la divulgazione di un’informativa della Gdf dal contenuto a luci rosse imbarazzante per lui e per lo stesso Berlusconi. Anche questa ricostruzione non regge. Con l’avviso della conclusione delle indagini avviene il deposito di tutti gli atti, e tutti i difensori hanno diritto a prendere copia. E Tarantini, non essendo l’unico imputato, poco avrebbe potuto fare per impedire la pubblicazione di documenti compromettenti.
(ha collaborato Simone Di Meo)
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