Cronaca locale

La battaglia di don Francesco per l'integrazione dei rom

Dodici i bambini battezzati, famiglie coinvolte nell'attività della parrocchia e una casa trovata alla famiglia di Ginevra, la piccola nata durante lo sgombero di un campo rom abusivo a Giugliano

La battaglia di don Francesco per l'integrazione dei rom

Dal cofano di una macchina a una casa. Nata durante lo sgombero del campo rom avvenuto a Giugliano a maggio scorso, aveva passato i suoi primi giorni di vita in un’auto. Ora, dopo 10 mesi, Ginevra potrà vivere come tutti i bambini. Con il suo papà e con la sua mamma in attesa di un altro figlio, a breve si trasferirà da una baracca a un appartamento preso in affitto nel centro di Giugliano. Si tratta della prima delle famiglie allontanate a maggio scorso dall’accampamento abusivo situato in località Ponte Riccio che riesce a trovare una sistemazione in un alloggio. A renderlo possibile è stato don Francesco Riccio. Dal battesimo di 12 bambini, al coinvolgimento nelle attività della parrocchia, alla ricerca di una casa, l’impegno del parroco della chiesa di San Pio X sta producendo i suoi risultati nell’integrazione di una comunità da decenni relegata ai margini del territorio.

“Grazie a don Francesco, che mi ha aiutato. Grazie anche a Carmen.”, sono le parole di Alex, il papà di Ginevra. Carmen è la madrina della sua bambina, è di Giugliano, anche lei ha avuto un ruolo decisivo nella ricerca della casa, di proprietà di familiari. “Qua vivo in una baracca, nel campo rom. Adesso ho una casa a Giugliano”, afferma Alex. “E’ un bravo meccanico”, rivela sul suo conto don Francesco, che sta provando anche a trovare una soluzione per inserire lui e altri ragazzi del campo nel mondo del lavoro. Il papà di Ginevra ha 19 anni, è uno dei 12 figli di Nurija, portavoce delle famiglie della baraccopoli allestita abusivamente in un’area privata a pochi chilometri di distanza dal vecchio campo. “Aspettiamo solo che mettano la corrente. Abbiamo sistemato la casa - racconta il nonno di Ginevra -. Ci ha dato una mano don Francesco. Se non ci fosse stato lui non avremmo mai trovato una casa per mio figlio. Tutti dicono che i rom non voglio vivere in una casa, ma non è vero”. Ginevra e il fratellino in arrivo ora potranno andare anche a scuola, è questo il primo pensiero della mamma della piccola. Da quando sono stati sgomberati dal vecchio campo, i bambini – oltre 100 - non vanno più a scuola.

La possibilità che è stata data ad Alex, alla moglie e a Ginevra, accende qualche barlume di speranza tra le famiglie che vorrebbero abbandonare la baraccopoli per iniziare a vivere dignitosamente in un alloggio. Sono circa 400 gli occupanti dell’insediamento abusivo, molti sono i minori. Vivono senza acqua in una ex fabbrica. Il Comune di Giugliano ha messo a disposizione dei fondi per le famiglie che presentano un regolare contratto di affitto, ma la ricerca di una casa non è semplice per chi viene da un campo rom. Quei contributi, circa 5 mila euro, ora dovranno essere destinati ad Alex, che ancora non ha ricevuto 1 euro. “Ho anticipato io la somma da versare per la casa”, afferma Nurija. Don Francesco si sta muovendo affinché Alex possa ottenere la somma che gli spetta, un contributo con cui riuscirà a coprire le spese per l’affitto per i primi due anni.

Intanto, si sta lavorando per mettere a posto l’appartamento. La culla di Ginevra si trova per il momento nella sala dove nel giorno dello sgombero don Francesco accolse tutti i bambini del campo per il pranzo della domenica. Diversi i ragazzi che nei mesi scorsi hanno partecipato ai campi estivi. Ci sono famiglie che, almeno fino a quando non è esplosa l’emergenza per il coronavirus, ogni settimana si recavano in chiesa per la preghiera. “Normalmente, finita la preghiera, ci si incontra, si parla, ci si presenta. E loro hanno iniziato così a conoscere gli altri”, racconta don Francesco Riccio, che è anche responsabile dell’Ufficio comunicazione della diocesi di Aversa. “Per i battesimi che abbiamo fatto – spiega - i padrini e le madrine sono state le persone della parrocchia, persone che in questo tempo si sono conosciute e hanno deciso poi di accompagnare all’altare questi bambini. Anche questo ha posto legami”. Per spiegare il clima che si respira nella sua parrocchia, poi dice: “Noi non abbiamo un pranzo di Natale per i poveri, noi abbiamo la festa di Natale della parrocchia. Se tu vieni qua alla festa di Natale della parrocchia non sai chi è la famiglia che assistiamo e chi è la famiglia dell’azione cattolica o il ragazzo che serve la messa, perché noi siamo tutti seduti a tavola”. E quello che dice si riscontra nella realtà, nell’angolo bar che è stato allestito nella chiesa, nella stanza con i vestiti per i piccoli che sembra una cameretta colorata, profumata e in ordine, nella cucina in cui da un anno e mezzo si prepara da mangiare per chi ne ha bisogno. E i volontari sono dei preziosi collaboratori in quest’opera di carità.

"Qui non ci sono famiglie rom e altre famiglie, questa è un'unica famiglia", ci tiene a precisare il sacerdote, che in questo percorso diretto all’inclusione sociale dei rom di ostacoli ne ha incontrati, ma lui si sente tranquillo, perché – dice – “Quello che facciamo con i rom è un’espressione della nostra carità, della nostra fede. Li accompagno volentieri, adesso anche per l’affitto, per capire da dove devono uscire questi fondi. Io non sono un’associazione particolare, non sono una onlus, non sono niente. Noi siamo la parrocchia, siamo la comunità. Abbiamo qualcosa da dare perché ci viene dato e vogliamo donare volentieri, e quando busso al Comune non lo faccio per me, busso per loro, bussiamo affinché loro possano ricevere quello che devono avere di diritto. Questi fondi che arrivano dalla Regione, dall’Europa, se sono fondi che devono andare ai rom, noi li dobbiamo dare ai rom, non a chi lavora per i rom”.

Le difficoltà sono tante, ma don Francesco riesce a trovare nel cambiamento che osserva nei ragazzi del campo la forza per non mollare. “All’inizio – racconta il sacerdote - quando li sentivo parlare, mi accorgevo che tutto sommato il campo gli bastava, il campo era anche il luogo dove realizzare i sogni: una ragazza di 15 anni in quel campo inizia a sognare il marito e glielo trovano stesso nel campo, tra parenti, conoscenti. Non c’erano sogni fuori dal campo, non c’era un’altra prospettiva al di fuori del campo. Noi abbiamo fatto il campo estivo con i giovanissimi, dove si parlava proprio di sogni e abbiamo iniziato ad ascoltare i ragazzi e le ragazze del campo che sognano, per esempio, di diventare poliziotto, che sognano di diventare una maestra, che sognano di realizzare qualcosa che non è più nel campo, cioè che non accade tutto nel campo, che il mondo non è il campo, e credo che sia questo che attualmente ci permette con loro di realizzare dei processi di cambiamento. In loro è cambiato qualche cosa. Loro adesso hanno dei sogni, il campo non è il loro sogno di vita. Loro credono che ci siano altri spazi nel mondo e altre persone con cui realizzare questi sogni”.

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