Roma - Un’avaria grave, e nessuna rotta alternativa all’orizzonte. Obbligato a ricondurre in porto la navicella fallata di Prodi, il presidente Giorgio Napolitano ieri pomeriggio ha voluto «scaricare» le tensioni degli ultimi due giorni tornando a casa, in vicolo dei Serpenti, assieme alla moglie Clio. Una breve passeggiata che gli ha consentito di rinsaldare, tra le mura domestiche, la consapevolezza di aver fatto l’unica cosa che si poteva e doveva fare. Rinviare Prodi alle Camere, vista «la complessità e difficoltà della crisi» e la «serietà dei problemi» sul tappeto, «riconosciuta da tutte le componenti dell’Unione durante le consultazioni». E vista l’inesistenza di altre strade percorribili.
Non resta ora che una «prudente attesa» e l’auspicio che il governo possa superare in Senato la verifica della propria capacità di galleggiamento. Un accertamento da compiere «in tempi brevissimi», chiede Napolitano. Il Quirinale infatti non si fa illusioni. Ma la rotta era obbligata: «Le ipotesi legittime e motivate di sperimentazione di una diversa e più larga intesa di maggioranza», per un governo cioè che mettesse mano alla revisione della legge elettorale, «non sono risultate sufficientemente condivise per poter essere assunte come base della soluzione alla crisi del governo Prodi». Napolitano non ha ritenuto neppure che ricorressero le condizioni per «un immediato scioglimento delle Camere, sia alla luce di una costante prassi istituzionale, sia in considerazione di un giudizio largamente convergente, benché non unanime, sulla necessità prioritaria di una modificazione del sistema elettorale vigente». Insomma, tornare alle urne con questo sistema di voto avrebbe potuto riprodurre situazioni di ingovernabilità e incancrenire disfunzioni già presenti, nonché impedire che il Paese risponda alle «pressanti esigenze di intervento e riforma in campo economico, sociale e istituzionale». Senza contare «i delicati impegni europei e internazionali dell’Italia». La preoccupazione perciò resta tutta, ed emerge chiaramente dal documento con il quale il presidente ha voluto rendere esplicite le motivazioni di una decisione obbligata ma, come si vede, non del tutto scontata.
Ieri mattina, di buon’ora, il capo dello Stato ha voluto scrivere di suo pugno le considerazioni sulla crisi. Le ha lette ai consiglieri, ha telefonato a Romano Prodi per convocarlo alle 11. Poco meno di quaranta minuti è durato l’incontro, nel quale alla mancanza di entusiasmo del presidente è corrisposta invece una crescente soddisfazione del premier dimissionario. Che, ancora raggiante, si è presentato ai giornalisti, e poi a Montecitorio per incontrare il presidente Bertinotti quasi a fugare le voci di una «presa di distanze» tra i due.
Diverso e ben più compassato il clima al Quirinale. Dove Napolitano ha chiesto per un’ultima volta al premier garanzie sull’esistenza dei numeri al Senato tanto per la fiducia quanto per l’Afghanistan. Ed è stato chiaro che la possibilità di rinvio alle Camere non ammetterà una seconda volta. Poi il capo dello Stato è uscito dallo studio alla Vetrata per leggere ai giornalisti la nota, nella quale vengono sottolineate anzitutto l’«attenzione e rispetto» con il quale sono state ascoltate «tutte le formazioni politiche». Preciso e fermo, Napolitano, nello spiegare che «le dimissioni del governo non si erano rese necessarie per obbligo costituzionale, ma per dovere di chiarezza politica dopo gli esiti delle votazioni del primo e 21 febbraio (i due scivoloni sulle relazioni di Parisi e di D’Alema, ndr), e per le divergenze e tensioni manifestatesi già prima nella maggioranza di governo». Soprattutto «insufficiente coesione di posizioni e di comportamenti», aggravati dalla «ristrettezza del suo margine di maggioranza in Senato».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.