Va a finire che il presidente della Repubblica debba dare lezioni private di diritto a un seguace di Antonio Di Pietro, per giunta sulla vicenda Craxi. Giorgio Napolitano ce l’ha con Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera che peraltro risulta di professione avvocato. E non pare proprio tenerissimo: «Desidero solo farle presente che ho l’abitudine di documentarmi e di fare affermazioni precise». Ecco il busillis: «Lei confonde la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo con la Corte di Giustizia europea, che è cosa diversa». Bocciatura in piena regola, onorevole Donadi torni al prossimo appello. Il problema è che quelli dell’Italia dei Valori in Parlamento si presentano ogni giorno.
Riconciliazione, vocabolo sconosciuto al clan di Tonino. E questo si sapeva già. Ma guai a gettare acqua sul fuoco sulla via del giustizialismo, quelli proprio non te lo perdonano. Anche se sei il presidente della Repubblica, e parli a dieci anni dalla morte di Bettino Craxi. Alla fine, trovano sempre il modo di mettere il becco. Stavolta il «peccato» di Napolitano è di aver scritto, alla vigilia dell’anniversario, una lettera alla vedova dell’ex leader socialista. Contro di lui, mette nero su bianco il capo dello Stato, «ci fu una durezza senza eguali sulla sua persona» da parte della magistratura, della stampa e di una buona parte della politica. E ancora, «il nostro Paese non può consentirsi distorsioni e rimozioni» sulla figura dell’uomo di governo. Ineccepibile. Napolitano termina il suo messaggio con un’annotazione fondamentale: «La Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, nell’esaminare il ricorso contro una delle sentenze definitive di condanna dell’onorevole Craxi, ritenne che pur nel rispetto delle norme italiane allora vigenti, fosse stato violato il “diritto a un processo equo” per uno degli aspetti indicati dalla Convenzione europea». Concetto sacrosanto? Macché.
Donadi l’aveva presa subito male. Proprio non stava nella pelle e sul blog personale ha sbrodolato nei confronti dell’inquilino del Quirinale: «Caro Presidente, rispettosamente, ma totalmente, dissento dal contenuto della lettera». Più giù l’affondo vero e proprio: «(Le sue parole) non stanno servendo affatto a una serena e più condivisa considerazione della figura di Craxi, ma semplicemente stanno dando un’insperata forza a quelle mille interessate voci che tentano oggi, unilateralmente e strumentalmente, di riscrivere la storia a senso unico». Beccati questa. A conclusione all’amaro sfogo, ecco la buccia di banana sulla giurisprudenza, materia in cui Donadi è laureato, al pari di Di Pietro, certo: «... La spinge ad evocare - si rivolge sempre a Napolitano - possibili ingiustizie,(...) come stabilirebbe una sentenza della Corte di Giustizia europea». Ahi ahi, strafalcione da matita blu.
Del resto l’agguerrito Donadi, il giorno prima da Porta a porta, aveva lanciato un’altra metafora sulla scia del già collaudato Berlusconi-Dracula: «Quelle del capo dello Stato mi sembrano affermazioni del tipo della Sibilla cumana, che cambia il suo senso a seconda di come si mettono le virgole». Poteva andare peggio, dopotutto sui banchi dell’Italia dei valori il presidente Napolitano è più noto col gentile appellativo di «Morfeo». Tuttavia l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso nei rapporti tra Quirinale e truppa dipietrista potrebbe sembrare una sottile disputa da azzeccagarbugli, invece siamo all’abc del giusto processo. Concetto probabilmente troppo complicato per certi forcaioli incalliti, a Roma come ad Hammamet. Per questo motivo Giorgio Napolitano - che tutto è tranne un «revisionista» - s’è dovuto scomodare, andando a scrivere alla lavagna a favore degli alunni più duri di comprendonio: «Lei non ha evidentemente letto la sentenza a cui mi riferisco, che sul punto da me indicato così recita: “Non è possibile ritenere che il ricorrente abbia beneficiato di un’occasione adeguata e sufficiente per contestare le dichiarazioni che hanno costituito la base legale della sua condanna”».
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