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"Ti ricorderai di noi". Le minacce dei migranti dopo il nostro reportage

Sono arrivate direttamente tramite WhatsApp: prima intimidazioni, poi minacce vere e proprie. Dopo aver documentato le condizioni di vita nel Silos di Trieste queste sono le conseguenze

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“Pensi di essere una brava ragazza? No, non sei niente e un giorno lo capirai”. E ancora: “Farò qualcosa, tutti ti conoscono ormai”. Questi sono solo alcuni dei messaggi che sono arrivati dopo aver pubblicato il reportage che documenta le condizioni in cui vivono i migranti della rotta balcanica all’interno del Silos di Trieste. Una serie di intimidazioni che arrivano da chi lì dentro ci vive ma che, purtroppo, è ai comandi di qualcun altro e che “si giustifica” scrivendo anche “io voglio vivere”.
Ed è proprio in quel posto dove afghani e pakistani vivono, come fantasmi, in attesa di essere inseriti in un centro accoglienza non prima di qualche mese dal riconoscimento delle autorità. Un posto infernale, un edificio che cade a pezzi con montagne di immondizia sulle quali dormono queste persone giovanissime, ma anche un luogo estremamente pericoloso, dove lo spaccio di droga e altri affari illeciti regnano sovrani non sempte a causa di chi si trova lì temporaneamente, ma delle gerarchie ben più potenti che comandano.


Questa è casa mia, vi ammazzo” così ci aveva aggredito il nordafricano che, insieme ai suoi, gestisce e controlla il Silos. Prima un’ascia, poi un coltello e le urla che ci costringevano ad abbassare le telecamere.nUn episodio che abbiamo raccontato ma che ha suscitato una serie di intimidazioni arrivate direttamene su WhatsApp.

“Sei proprio una bugiarda, non sarai felice. Hai mentito ma ti prometto che farò qualcosa” e ancora “Mi occuperò di questo”. Una conversazione che presto si trasforma in una minaccia: “Sto condividendo tutti i tuoi contatti, i tuoi dati, tutto quello che ho. Vediamo come ti mostreremo al pubblico e ai media, cosa sta facendo con le persone”. Subito dopo, l’uomo dall’altra parte del telefono, dimostra quanto dice mandando effettivamente una serie di dati personali e arrivando poi a mettere in mezzo le questioni private e addirittura la famiglia. “Pensavo a te e tua figlia”, continua la persona dimostrando di conoscere aspetti privati. “Dio non ti darà ragione”, prosegue. Frasi che suonano come avvertimenti e che si fanno, messaggio dopo messaggio, sempre più precisi e pericolosi.

“Un giorno ti ricorderai di noi quando qualcuno farà qualcosa con te”. Parole che non restano inosservate e che danno l’idea di quanto queste persone siano in grado di “controllare” le vite di chi si “intromette” semplicemente facendo il proprio mestiere. Il cambio di guardia è lampante, infatti: se di fronte al Silos i migranti erano i primi a voler far vedere le condizioni disumane in cui vivono, subito dopo la reazione è questa. Minacce e paura, evidentemente uno dei pochi modi con cui sono abituati a rapportarsi.

È forse questo il concetto di integrazione che l’Italia buona proclama? È forse questa l’accoglienza per cui la sinistra si batte a spada tratta mentre qui, a Trieste, come in tutta Italia migliaia di persone sono abbandonate a se stesse e libere di comportarsi come preferiscono con conseguenze nella maggior parte delle volte irrisorie? “In Italia è tutto permesso, siete buoni”, ci avevano raccontato alcuni migranti alla frontiera con la Slovenia. Il paese delle meraviglie, così viene visto il nostro paese da chi cerca una speranza per una vita migliore. Ed effettivamente quel “tutto è permesso” lo abbiamo visto con i nostri occhi.

Ma c’è di più, perché con la non gestione dell’accoglienza il fenomeno migratorio si mescola inevitabilmente a quello della criminalità organizzata di cui gli stessi profughi sono ostaggi. “Mi hai messo nei guai con la mafia”, scrive ancora su WhatsApp l’uomo.

Per concludere con un avvertimento poco piacevole: “Hai scritto un articolo su di noi e te ne sei andata.

Ma vedrai cosa succederà, sarai contenta allora”.

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