Controcultura

Nel Canova visto da Spina c'è la bellezza imperfetta

Le immagini del fotografo colgono nei gessi dello scultore la metafora dell'esistenza umana

Nel Canova visto da Spina c'è la bellezza imperfetta

Che cosa vede, che cosa cerca Luigi Spina in Canova? Cerca l'opposto di ciò che Canova vuole essere: l'imperfezione. Altri grandi fotografi si sono misurati con Canova. Nel 1992 accolse la sfida Mimmo Jodice. Jodice, con il nitore dello sguardo fotografico davanti a forme assolute nello spazio, isolate da ogni elemento di disturbo, potenzia la perfezione di Canova, va oltre l'ideale, restituendoci la dimensione immateriale del puro pensiero. La sua intenzione è «far diventare le sculture, attraverso la Fotografia, veri e propri corpi». Non è così l'esito, perché quei corpi sono pure idee, essenza. Canova si basta, ma Jodice vuole capire «l'invenzione della bellezza», la sua origine. Jodice non documenta, insegue un segreto per rivelarlo; e le sue fotografie vivono autonomamente, quanto più sono distanti dalle sculture. Cercano un'altra dimensione, uno spazio interiore.

Diverso è il corpo a corpo di Spina. Dopo aver fotografato le sculture della collezione Farnese nel museo archeologico di Napoli, «marmi parlanti», si avventura nel mondo di Canova nel punto più lontano dalla destinazione finale delle opere. Entra nello studio dello scultore che, nel frattempo, è diventato un grande museo: la Gypsotheca di Possagno. Non so quando vi sia entrato la prima volta, ma è interessante che egli dichiari, all'opposto di Jodice, che «per quanto concerne Canova avevo meditato a lungo che la via privilegiata per affrontare una ricerca non era il noioso marmo, super fotografato e abusato. Ma il gesso!». Spina sente il gesso come l'opposto del marmo. La materia della imperfezione tattile rispetto a quella incorruttibile, dove domina l'idea e non c'è traccia della manualità. Per capire ciò che cerca sono essenziali il bianco e nero, e il progressivo avvicinamento alla materia attraverso i dettagli: «Attraversare la materia. Svelare le superfici gessose delle sculture attraverso sequenze fotografiche a contatto con il soggetto. Il gesso è, nell'atto del concepimento dell'artista, il momento fragile e variabile del sentire il corpo della scultura. L'atto del creare nel momento più delicato. Dove bisogna raggiungere un equilibrio. Tra il genio dell'artista e i limiti della materia. Il gesso bianco, luminoso, senza forma. L'inconsistenza del gesso è metafora dell'esistenza umana. L'artista cerca di spalmarlo, modificarlo e assoggettarlo ad una forma. Il gesso, fatto scultura, è vera espressione dell'animo creativo. Materia primigenia e oscura che s'illumina nel fragore e nell'esaltazione della creazione».

Ecco: Spina cerca il «momento fragile e variabile» di Canova, mentre il marmo è assoluto, perfetto, gravido di eternità. Il gesso è fragile, la sua pelle è come l'epidermide di un corpo. E, dunque, «l'inconsistenza del gesso è metafora dell'esistenza umana». Così le fotografie di Spina palpitano, respirano, non sono trionfanti ma inquiete. Questo cerca Spina. E si avvicina ai gessi con un fremito, per farne riemergere la presenza immediata rispetto alla promessa di immortalità. Il classico, e in particolare Canova, è senza tempo. Ma Spina ne rivendica la contemporaneità, la insegue, la insidia. Cerca l'errore, il limite della quotidianità. Canova, che più di ogni altro si è misurato con il nudo, si sarebbe sentito nudo davanti alle fotografie di Spina, fino a quasi non riconoscersi o a non volersi riconoscere. Spina non cerca né l'intero, nella sua assolutezza, né il particolare, nel suo spaesamento; avanza per grandi dettagli, inconsueti, non prevedibili. Vede ciò che lo stesso Canova non aveva visto. Spina non vuole documentare, vuole sentire la vita delle forme.

La Gypsotheca di Possagno, diversamente dallo studio romano di Canova, certamente umbratile, così come sarà stato, non agevola l'impresa di Spina. L'Ala Lazzari, così come l'addizione di Carlo Scarpa, sono spazi sempre illuminati, da luce esterna, di gestione critica per il fotografo. I problemi di luce limitano l'esecuzione a una fascia temporanea ristretta. Spina sceglie la prima decade di gennaio: «Il problema serio è che la ricerca su Canova, come più volte ribadito, si deve fare nei mesi invernali. Ciò è dovuto alla luce che, soprattutto nello spazio museale progettato da Carlo Scarpa, non permette di essere schermata». Dunque, Spina insegue l'ombra meteorologica, favorita dalla stagione di minor luce. Forse potrebbe insinuarsi fra le sculture alla fine della giornata, nella luce del tramonto, quando il gesso palpita mostrando la sua somiglianza con la carne. Ciò che vediamo, nelle sue fotografie, è l'idea calata in una forma analoga a quella del marmo, ma vibrante come le terrecotte mirabili in cui si sente l'alito della vita. La fotografia assume così la funzione della critica.

Nel corso del Novecento l'interpretazione di Canova, che oggi sembra definitiva e incontrovertibile, passò attraverso non irrilevanti riserve. Ludovico Ragghianti diceva di preferire alle sue statue di marmo, fin troppo levigate, i bozzetti, gli schizzi e i disegni, dove meglio si avvertiva la creazione spontanea dell'artista. Anche Elena Bassi, in un lavoro del 1943 ancora fondamentale, osservava che lo scultore «rimane quasi prigioniero nelle pastoie delle teorie artistiche e soffocato dall'enfasi petulante dei contemporanei». Cesare Brandi fu anche più severo: «Egli fu il primo e coscienzioso burocrate dell'arte (...). La sua scultura resta il più nobile, il più coscienzioso, il più genuino e illusivo dei surrogati...». Lapidario e senza appello il giudizio di Roberto Longhi: «Antonio Canova, lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all'Accademia e il resto non so dove». Giulio Carlo Argan aprì una stagione nuova, correggendo il malumore dei suoi colleghi e definendo Canova il più moderno dei classici. Canova si muove in uno spazio indefinito senza confini temporali: è gravido di futuro e carico di passato. Da questo nasce qualcosa di straordinario che riesce a fermare il tempo. Con Paolina la bellezza moderna si fa antica.

Spina, nei modelli di gesso cerca un artista inquieto e diviso, maestro di una idea della bellezza senza tempo e senza limite, un artista dell'armonia, della misura perfetta e di un mondo perduto. Spina cerca di rispondere agli interrogativi di John Keats nell'Ode su un'urna greca: «quale leggenda vive, ornata di foglie, nelle tue forme/ di divinità e mortali, o entrambi,/ a Tempe o nelle vallette d'Arcadia?/ Che uomini e che dei sono questi? Quali fanciulle ritrose?/ Quale folle ricerca? Quale tentativo di fuga?/ Quali flauti e tamburi? Quale estasi selvaggia?/ Le melodie udite son dolci, ma quelle che non si sentono/ lo sono ancora di più; quindi, dolci flauti,/ continuate a suonare, non per l'udito, ma, ancora più caro,/ suonate per lo spirito canzoni senza suono:/ bel giovane, sotto gli alberi, non puoi cessare/ la tua canzone, né mai saranno spogli quegli alberi;/ amante audace, non potrai mai, mai baciarla/ anche se sei così prossimo al tuo obiettivo - eppure, non temere;/ lei non può scomparire, anche se non raggiungi la tua gioia,/ tu amerai per sempre, e lei sarà per sempre bella./ Ah felici, felici rami! Che non potete perdere/ le foglie, e non direte mai addio alla primavera;/ e, felice suonatore, mai stanco,/ che intonerai per sempre musiche sempre nuove;/ ancor più felice amore! Più felice, felice amore!/ Per sempre caldo e ancora da godere,/ per sempre ansimante, e per sempre giovane;/ siete superiori a ogni viva passione umana,/ che lascia il cuore afflitto e nauseato,/ la fronte in fiamme, e la lingua arida./ E chi sono costoro che vanno al sacrificio?/ A quale verde altare, oh sacerdote misterioso,/ conduci quella giovenca che muggisce al cielo,/ coi lisci fianchi adornati di ghirlande?/ Quale piccolo paese sul fiume, o sul mare,/ o quale pacifica cittadella inerpicata sui monti/ si è svuotata dei suoi abitanti in questo sacro mattino?/ Piccolo villaggio, le tue strade saranno per sempre/ silenziose; e nessuno potrà mai tornare/ a dire perché tu sei desolato».

Ecco: gli occhi di Spina esprimono le domande incalzanti dei versi di Keats e scaldano la materia in cui le idee si calano.

Ne esce alla fine un Canova non scultore dell'ideale, ma di vive, reali emozioni.

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