Controcultura

"Nel Cristo di Grünewald l'immondizia del corpo e lo sconforto dell'anima"

La Crocifissione per l'altare di Issenheim è un «capolavoro dell'arte obbligata a rappresentare sia l'invisibile che il tangibile»

"Nel Cristo di Grünewald l'immondizia del corpo e lo sconforto dell'anima"

Era il Cristo dei poveri, colui che si era assimilato ai più miserevoli tra quelli che era venuto a riscattare, ai mendicanti e ai disgraziati, a quelli sulla laidezza e la miseria dei quali si accanisce la vigliaccheria degli uomini; ed era anche il più umano dei Cristi, il Cristo dalla carne meschina e debole, abbandonato dal Padre, che non era intervenuto se non quando non vi sarebbero stati altri dolori possibili da sopportare, il Cristo assistito soltanto dalla Madre, che certamente aveva invocata, con grida infantili, come tutti quelli che subiscono la tortura, la madre impotente e inutile!

Certamente, per un parossismo d'umiltà, aveva fatto sì che la Passione non superasse i limiti concessi ai sensi e, in obbedienza a ordini incomprensibili, aveva accettato che la sua Divinità subisse un'interruzione, venisse come spezzata dagli schiaffi e dalle sferzate, dagli insulti e dagli sputi, dagli svariati aspetti della sofferenza umana fino agli spaventosi dolori di un'agonia senza fine. Così aveva potuto soffrire meglio, rantolare, crepare come qualsiasi bandito, come un cane, sporcamente, miseramente, fino in fondo, al limite estremo dell'abiezione, fino all'ignominia della cancrena, fino all'oltraggio estremo del pus!

Il naturalismo non si era mai arrischiato a trattare un soggetto del genere, né mai pittore aveva rimestato in tal modo nel carnaio divino né intinto con tanta brutalità il pennello nella tavolozza degli umori corporei e nelle ciotole sanguinanti delle piaghe. Era un'opera eccessiva e tremenda!

Grünewald era il più forsennato dei realisti, eppure, vedere quel Redentore di gentaglia, quel Dio da obitorio era un'esperienza unica e indimenticabile. Da quel viso esulcerato filtrava la luce, un'espressione sovrumana illuminava la putrefazione delle carni, l'eclampsia dei lineamenti. Quella carogna ad ali spiegate era un Dio, e un Dio senza nimbi né aureole; con l'arruffata corona di spine impreziosita soltanto da stille di sangue, Gesù appariva nella sua Essenza Divina, tra una Madonna schiantata, ebbra di pianto, e un san Giovanni dagli occhi calcinati, senza più lacrime. Quei visi dalle fattezze volgari splendevano, rischiarati dall'afflato dell'anima. Non c'era più povertà, i ladroni svanivano, la volgarità scompariva, restavano solo esseri di un'altra sfera, al cospetto di un Dio.

Grünewald era un idealista fanatico. Nessun altro pittore aveva mai esaltato con tanta magnificenza il soprannaturale, nessun altro si era lanciato con tanto ardimento dalle vette dello spirito nell'orbe remoto del cielo. Aveva raggiunto i due estremi: era riuscito a estrarre dal marciume trionfante l'aroma sottile della predilezione, l'acuta essenza delle lacrime.

Quella tela era il capolavoro dell'arte messa alle strette, obbligata a rappresentare sia l'invisibile che il tangibile, a mostrare l'immondizia dolente del corpo e a sublimare l'infinito sconforto dell'anima.

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