Nel paese dei centenari si va a passo di... lumaca

Campodimele vanta il record di superanziani e i golosi gasteropodi in salsa verde

Renato Mastronardi

Campodimele non è soltanto il paese più alto che, affacciato sul versante pontino dei monti Ausoni, guarda tutta la valle che arriva fino alle riviere di Fondi, di Gaeta e di Sperlonga, ma è anche il centro che, tra i suoi abitanti, conta il più alto numero di centenari. Un primato nazionale, quasi europeo. I suoi vicoli, le sue scalinatelle, le sue viuzze, per la verità, non sprizzano pagine straordinarie di storia antica e medievale. Tuttavia non mancano testimonianze abbastanza interessanti che danno al piccolo paese, la possibilità di vantare «briciole» di un’importanza strategica che, durante i secoli più facili alle invasioni barbariche e saracene, lo resero un fortilizio imprendibile e di straordinaria efficacia difensiva posto, com’era e com’è, in posizione tale da poter dominare la stretta valle attraversata dal fiume Liri e dalla strada che dalla Ciociaria porta fino ad Itri e fino al golfo di Gaeta. Per questo, e per lungo tempo, fu uno dei baluardi del Ducato di Fondi, al quale appartenne dalla fine del XIV secolo. E questo fu anche il periodo del suo massimo splendore. Quando, soprattutto, Campodimele, grazie alla sapienza strategica e militare dei Caetani, fu designata a vegliare sui traffici che scorrevano dall’interno verso il mare. E non per caso fu uno dei pochissimi centri, se non l’unico, che nella sua storia non ebbe mai a subire catastrofi, incendi e distruzioni. Neanche durante l’ultima guerra nonostante la vicinanza al fronte di Cassino.
Da vedere. Di primo acchito, quando si giunge a Campodimele, è l’impatto con la cinta muraria e con la raccolta e minuscola piazzetta sulla quale si affaccia il municipio. Le mura, pressoché intatte, furono innalzate in età medioevale ed appaiono, ancora oggi, intervallate da undici torri semicilindriche, molte delle quali, con lo scorrere dei tempi, sono state inglobate in abitazioni private. Quando non sono diventate esse stesse dei veri e propri residence molto ricercati e appetiti, soprattutto da turisti stagionali e di passaggio. Nel complesso esse danno forma ad un poderoso monumento d’architettura difensiva di grande suggestione. Come è dell’abitato che si sviluppa, compatto, in uno spazio ristretto ma seguendo i canoni classici delle fortezze medievali con le case addossate a formare una massa difficilmente penetrabile. Anche per Campodimele il punto dell’estrema difesa si colloca al vertice più alto del comune. Là dove, oggi, sorge la chiesa di San Michele Arcangelo, nel cui interno si conserva un bel trittico raffigurante la Vergine tra San Sebastiano e San Rocco. Di non trascurabile interesse è anche un teatro a cavea ricavato dalla diversa pendenza del terreno. Ma quello dei campomelani è anche un territorio che si presta a spettacolari paesaggi. E alle passeggiate, quella faticosa verso la cima del Faggeta, e quella più facile e abbordabile accesso fino all’ormai restaurato Monastero di Sant’Onofrio, a ridosso del paese. Di piccole dimensioni, ma dotato di tutto ciò che era necessario alla sopravvivenza di una comunità benedettina: la chiesa, le celle, le cisterne per l’acqua, gli orti da coltivare e le stalle.
Da mangiare e da bere. Lungo il corso dei secoli le attività produttive di Campodimele si ispirarono a una cultura silvo-pastorale e di piccola e familiare agricoltura.

Attività che, ancora oggi, dettano la carta dei menù più richiesti: la tipica Laìna e fagioli, il caprettone e, soprattutto, le lumache o «ciambotte», servite in salsa verde, che, secondo un’antica tradizione si offrono ai visitatori aromatizzate alla mente ed erbe proprie della zona. Le quali, ovviamente, reclamano la compagnia festosa dei più classici vini del basso Lazio: il Bianco di Terracina, il Falerno e il Cecubo di Formia, insieme al vino di Gaeta.

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