Roma - Altro che Giornale e Libero, altro che quegli scatenati manettari del Fatto o i «poteri forti» attendati tra Corriere e Repubblica che tramano (magari sperando in un aiutino dal Colle), per togliere il pallino di mano alla politica, Pd incluso, e riesumare quel «governo degli onesti e dei capaci» rievocato ieri, con tanto di citazioni di Berlinguer e Visentini, da Eugenio Scalfari.
Certo, sono tutti segnali e fantasmi che allarmano oggi il segretario del Pd, che si sente «sotto assedio» per l’ondata di casi giudiziari che lambiscono il suo partito e insidiano il suo ruolo e le sue chance per la premiership, e «dice basta», come titola l’Unità. Lui stesso lo spiega a Repubblica: «Vogliono (magari avrebbe detto volentieri «volete», ma non poteva, ndr) dimostrare che non esiste un’alternativa nel Paese, buttarla in vacca. E sappiamo già come finisce: facciamo altri 15 anni con una situazione fuori controllo, con Berlusconi o un nuovo Berlusconi». Ossia con un uomo venuto da fuori della politica, e scelto dai poteri forti: «Un “tecnico”, Monti o chi per lui, benedetto da Corriere e Repubblica, al posto del candidato naturale in caso di elezioni, ossia Pier Luigi», come spiega un dirigente bersaniano di prima fila.
Ma il primo Giuda, come sempre accade, Bersani sa di averlo molto più vicino, alla sua destra (o sinistra, non è chiaro), e seduto alla sua tavola, nel suo stesso partito, anzi al suo vertice, e per sua stessa investitura. Un Giuda in gonnella e assai loquace, che negli ultimi giorni non riesce a nascondere un certo rivelatore entusiasmo per le dolorose tegole che cadono in testa al leader del suo partito.
Eccola lì, Rosy Bindi, la presidente del Pd (invero solo della sua Assemblea nazionale, ma chi ci bada), le cui dichiarazioni e interviste sulla questione morale nell’ultima settimana ormai non si contano più, e che ogni giorno si spinge un po’ più avanti. Come ieri con l’Espresso: prima la Bindi illustra la sua ricetta anti-corruzione (roba forte, «selezionare in modo rigoroso la classe dirigente, separare la funzione dei partiti da governo e amministrazione» etc etc), poi molla il siluro: se anche venisse provata la responsabilità penale di Penati, «riguarda il suo passato» e «il Pd non è coinvolto in alcun modo. Spero che anche il partito dei Ds, da cui proviene Penati, possa dimostrare di essere estraneo». Chiaro, no? Se al posto di «partito dei Ds» si scrivesse «Bersani», lo sarebbe ancora di più. Il fatto è, come dice un dirigente ed ex ministro Pd, che «si respira un’aria che somiglia molto a quella del 2005, dell’estate dei “furbetti” e delle scalate, quando l’intera filiera dell’ex Pci e delle cooperative finirono nel mirino». Nel mirino delle inchieste e delle intercettazioni sul caso Unipol-Bnl, nel mirino dei giornali e nel mirino dei più stretti alleati, quelli della Margherita in testa (il Pd ancora non era nato), che denunciarono una «questione morale» in chiave anti-Ds.
Mutatis mutandis, oggi la Bindi - che da anni insegue girotondi e popoli viola - pensa che se alla fine, purtroppo, il «partito dei Ds» non riuscisse a «dimostrare di essere estraneo», la prima testa a cadere sarebbe quella di Bersani, e la candidata naturale alla successione sarebbe una non-Ds di indubbia tempra giustizialista: ossia lei. «Ma è meglio che Rosy faccia bene i conti, perché non le conviene scagliare la prima pietra in fatto di morale», sibila un esponente bersaniano, che elenca le «strane amicizie» bindiane: «Alle primarie, per ottenere i loro pacchetti di voti, si alleò con personaggi come Agazio Loiero e l’assessore bassoliniano Angelo Montemarano», entrambi indagati. Accuse alla Bindi per un finanziamento andreottiano di 50 milioni, per la sua campagna elettorale del 1989, sono già state lanciate dal senatore Tedesco (da lei bollato come «ex socialista», ergo malfattore) e da Rino Formica.
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