Luciano Gulli
nostro inviato
a Sharm El Sheikh
Sotto la tenda di sheikh Medhat, su verso il wadi Mandar, ci saranno 42 gradi, ma lui dice che oggi è una buona giornata. «Ce ne fossero di così fresche», sorride amabile allospite mentre vezzeggia lultima delle sue bambine, Mariam, un carboncino di un anno e mezzo in un pagliaccetto a quadretti biancazzurri venuta a rifugiarsi fra le sue gambe. Splendido nella sua galabeya di un bianco immacolato, magro e guardingo come un passero, la barba appena accennata, Medhat offre tè alla menta bollente e karkadè gelato mentre con un bastoncello traccia sulla sabbia i confini del suo «regno». «Qui è Khourum, qui è wadi Mandar, dove siamo noi, e qui è il wadi Tammen». Ottantacinque chilometri di raggio a partire dalla sua tenda, tra montagne di granito rosso, canyon da film western e wadi (torrenti disseccati) i cui colori virano dallarancione acceso al bruno. Un clan di 500 persone che obbedisce a questuomo, che ha solo 35 anni, come a un sovrano. Nellaccampamento non si vede unarma, eccezion fatta per le unghie dei mignoli dello sceicco, lunghe un buon centimetro. Medhat non voleva vedere i giornalisti. Ma quando ha saputo che a scortarci cera uno della sua tribù, uno di quelli che fanno i tassisti giù a Sharm ha ceduto, a patto che non fossimo portatori di telecamera. «Sono giorni difficili - si scusa con la grazia di un ministro -. Allimbocco di ogni pista cè una camionetta della polizia. Anche oggi hanno arrestato unottantina di persone, e anche se non sono della mia tribù, io non voglio storie». Dalla capanna ombreggiata da foglie di palma secche in cui la sera si ritira con la moglie, che ci guarda da uno sperone di roccia, a debita distanza, il capo dei beduini di wadi Mandar ha visto tutto, venerdì notte. Da qui a Sharm El Sheikh cè unora di jeep, ma la costa, il biancore delle case, la linea azzurra del mare si intuisce ancora. «Ho visto lesplosione del Ghazala Gardens, ma ho pensato a un carnival, a una gran festa, visto che era venerdì. I terroristi che hanno fatto questa cosa sono cani. Peggio dei cani», commenta guardando il dromedario che si è accoccolato vicino alla tenda e mangia di gusto il cartone dacqua minerale che un ragazzo gli sta servendo dopo averlo fatto a brani. Dicono che i tassisti beduini che lavorano a Sharm, unora prima delle esplosioni si sono rifiutati di portare i turisti a Naama Bay. Come se avessero intuito qualcosa, o sapessero, addirittura. Ma sheikh Medhat, quando glielo racconto, cade dalle nuvole. «È la prima volta che lo sento dire. E non ci credo. Se la mia gente lavesse saputo, avrebbe avvertito la polizia. A Sharm i beduini lavorano tutti grazie al turismo. Saremmo stati dei pazzi a privarci del pane che portano gli stranieri». Difficile dargli torto. Fino a trentanni fa, i nomadi del Sinai vivevano di pastorizia. «Gli uomini si occupavano delle capre e dei cammelli. Le donne tessevano la lana, facevano le tende e i vestiti. Si viveva col latte delle capre e cacciando i conigli selvatici. Qualcuno andava a pesca, e questo è tutto. Poi, col turismo, molto è cambiato. Chi aveva un cammello si è messo a guidare lautomobile, e molti altri hanno trovato un lavoro sulla costa. Ma tornano quasi tutti alla loro tenda, nel deserto, la sera. Non costa niente, non si pagano tasse, e poi è così che abbiamo sempre vissuto».
Chi sia stato a mettere le bombe, Medhat non sa dire. Ma se sono venuti via terra, è indubbio che ad aiutarli sono stati i beduini. Solo loro sanno come uscire vivi da queste lande bollenti. Solo loro, che la preda e il contrabbando ce lhanno nel sangue, conoscono le piste che corrono lontano dagli occhi dei gendarmi. Sheikh Mehdat non lo nega. «Molta droga, molti carichi pericolosi passano da queste montagne, è vero - ammette con un sorriso allusivo -. Tra noi ci sono persone buone e persone cattive. E quelle cattive sono disposte a tutto, per i soldi». E di cattivi, nel suo clan, quanti ce ne sono? «Oh, nessuno, mi creda», ride obliquo, scoprendo una fila di denti arrugginiti. «Le bombe - continua sheikh Mehdat - sono venute da fuori. Basta vedere il tipo di esplosivo usato. Cera qualcosa di chimico, lì dentro. Roba che in Egitto non si trova. Secondo me, il carico è passato da Taba, e veniva da Israele. Ha visto su una carta quanto è lungo il confine che va da Rafah, su verso la striscia di Gaza, fino a Taba? Di lì passa di tutto». Laltro ieri, nella zona di Khourun cè stata una sparatoria tra forze speciali egiziane e beduini. «Uno della mia tribù è rimasto ferito - ammette di malavoglia lo sceicco - ma era unoperazione antidroga, non centrava con gli attentati». E il ferito era innocente, è chiaro. Gli egiziani sono fatti così. «Ogni volta che cè un problema se la prendono con noi». Ma lei si sente più beduino o più egiziano? risponde prudente, anche se ammette che con gli egiziani non cè mai stato un grande feeling. «A noi, gente del deserto, non hanno mai dato niente. Tutte le risorse sono sempre state dirottate sul Cairo, su Alessandria. Ora si sono presi anche la nostra costa, dove la gente andava a pescare. Ma va bene così. Il deserto è sempre nostro, e quello non ce lo possono prendere». Bei tempi, però, nei dieci anni di occupazione israeliana, quando i beduini si erano messi sul libro paga dei servizi di Gerusalemme. «Loro davano soldi, cibo, automobili, scavavano pozzi dacqua. La mia gente non ha mai avuto problemi con loro». Il turismo ha cambiato anche la vita di Medhat. Anche al suo accampamento ogni tanto arrivano pulmini carichi di stranieri tostati dal sole. Guardano il panorama, fumano il narghilè, si fanno una foto col dromedario che mangia cartone, mettono mano alla borsa e spariscono.
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