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Nel supermarket Italia squadre senza identità

Nel supermarket Italia squadre senza identità

Una volta si faceva presto: lo straniero della Forst Cantù era Bob Lienhard e quello dell’Ignis era Bob Morse, con l’aggiunta esotica dello «straniero di coppa» da metà anni Sessanta e, dal 1977, il passaggio al doppio straniero. Straniero tout court: non comunitario, extracomunitario, biondo di passaporto congolese o mulatto-norvegese, assimilato, oriundo (anche se ce n’erano, segnati quasi a dito nei palasport come creature bizzarre, ed esotici perché parlavano un italiano massacrante e vestivano come quelli di Saturday Night Fever), come invece capita dal 1996, anno della liberalizzazione. Si faceva male lo straniero, o deludeva, e lo sostituivi una volta sola. Per il resto, mercato chiuso per gli italiani il 31 luglio e per gli altri una settimana prima dell’inizio del campionato.
Adesso siamo all’opposto, ed è un opposto che potrà anche non produrre risultati numerici disastrosi, se si considera l’aumento di pubblico (0,6%), ma causa confusione in chiunque non segua il basket con assiduità: ogni club può effettuare fino a diciotto tesseramenti di atleti professionisti, compresi quattro extracomunitari secondo il sistema 4+2 che permette due cambi, e il suddetto sistema viene spremuto fino all’ultimo numero per sostituire giocatori al primo, massimo secondo segnale di scarso rendimento.
Godimento massimo di statistici e agenti, molto meno di un pubblico che resta emotivamente legato al nome che compare sul davanti della maglietta, anche nella continua giravolta di sponsor a volte divisi tra campionato e Coppe, ma fatica a familiarizzare con i cognomi di giocatori che una settimana ci sono e quella successiva vanno alla tua grande rivale: a ranghi completi, la Cimberio Varese avrebbe ora quattro giocatori del quintetto base diversi da quelli che hanno iniziato la stagione. Fanno fatica i tifosi a creare complicità con porte girevoli, fanno fatica gli allenatori a gestire le situazioni. Con la consueta precisione, sull’argomento interviene Dan Peterson: «Prima domanda, vogliamo un campionato italiano o un campionato che si gioca in Italia? Seconda domanda: le squadre di oggi sono più forti, comparativamente, con quelle del periodo dei due americani e mercato chiuso a fine luglio? No! E non dico di prendere come esempio una Milano di metà anni Ottanta, va bene anche una Varese, Cantù, Pesaro, Bologna. In più, ora ci sono molte più squadre NBA, per un totale di 450 giocatori sotto contratto con loro, ovvero oltre il doppio di quelli del 1980. Dunque quelli che vengono da noi valgono di meno, anche perché alcuni vanno anche nella NBDL e ora c'è la concorrenza di Francia, Russia, Spagna, Grecia, Turchia, Israele... E cambiare in continuazione fa perdere al pubblico il concetto di continuità e la toglie anche nello spogliatoio, perché poi in campo non riesci a trovare ad occhi chiusi un compagno di squadra che conosci a malapena perché è arrivato da pochi giorni. Io sono il primo a dire che molti allenatori in passato erano più bravi, ma dico anche che oggi è dieci volte più complicato allenare squadre che cambiano continuamente, in cui non puoi lavorare su un gruppo compatto. Mettiamoci anche gli agenti che per i giocatori italiani chiedono cifre altissime facendo dirottare i club su un danese che magari costa meno. Io dico che l’ideale è mercato chiuso presto, due-tre giocatori di buon livello in ogni squadra piuttosto che sette brocchi».
Dall'anno prossimo, comunque, ogni club deve avere a referto non meno di sei giocatori di formazione italiana, ovvero che abbiano fatto almeno quattro anni di settore giovanile (è la famosa regola per la quale Roberto Chiacig, che ne ha fatti di meno pur essendo italianissimo, non verrebbe considerato in quota italiani), ma per il resto proseguirà l’allegro fare e disfare squadre, prendere e lasciare, spedire e ricevere.

È il progresso, bellezza.

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