Nell’ospedale della vergogna fra topi, pilastri tranciati e muri riempiti con la sabbia

nostro inviato all’Aquila

I monitor sembrano accesi, chissà l’aria condizionata, l’elimina-coda elettronico sicuramente no. In sala operatoria gli attrezzi sono rimasti nel carrello, i materassi sul pavimento crepato fanno da apripista alla cappella al piano terra dove accanto alla Vergine in ceramica restano parcheggiati i carrelli porta vivande abbandonati nella fuga. Nell’ospedale peggio costruito del pianeta non si muove e non si sente niente, quand’anche da un momento all’altro tutto può venire giù in un boato dieci volte superiore a quello di una settimana fa. L’inagibile e irriconoscibile nosocomio «San Salvatore», quello abusivo e non accatastato perché privo del certificato di inagibilità, quello costato nove volte più del dovuto, quello con i pilastri tranciati (per dirla col sindaco Cialente) e con i muri portanti farciti con l’arena, quello completato dopo trent’anni di lavori, quello evacuato da medici e pazienti quando serviva ricoverare feriti e moribondi, insomma «quell’ospedale» è un casermone abitato da spettri e topi. Rumori sinistri accompagnano la visita dal Pronto soccorso ai piani bassi fino alla Rianimazione e all’Unità coronarica del livello superiore, per non dire del lungo e tetro tunnel che immette ai Delta, i padiglioni di Medicina e Chirurgia devastati dall’ira.
Ovunque è deserto, desolazione, distruzione. Pareti di cartongesso diventate gruviera, computer ammaccati dal cemento, cartelle cliniche e faldoni disseminati per le rampe, letti sfatti, estintori penzoloni, camici sfilati in fretta, lerce scodelle di minestra secca, carrozzine sommerse di calcinacci, crocifissi non più appesi, lastre d’inox a sbarrare strade che nessuno percorre più.
Più il percorso a ostacoli si fa impervio, più lavori d’immaginazione andando a quei momenti terribili, a quando l’istinto obbligava tutti a fuggire dal casermone di creta e la ragione imponeva invece di pensare prima ai non deambulanti: gli allettati intubati, i parzialmente infermi, gli invalidi totali. Il pronto soccorso è uno spettacolo di morte dove la vita sembra essersi fermata cinque minuti fa. Dicono, ma non si capisce chi lo dice, che alcuni dei reparti del San Salvatore potranno tornare agibili al più presto dopo accurati sopralluoghi e interventi mirati. Dicono anche che quel che è successo qua non è niente rispetto a quel che stranamente non viene raccontato sui giornali con riferimento all’Ateneo tra i più importanti del Paese, e cioè i danni ben più visibili all’università. Non ci resta che fare qualche metro e iniziare la circumnavigazione delle sette facoltà che permettevano all’Aquila di sopravvivere con l’indotto procurato dai 27mila allievi, alcuni dei quali murati vivi sotto la casa dello studente nel centro. Medicina è stata presa di mira con particolare insistenza dal sisma, che s’è divertito a sventrare le scale, gonfiare le aule, mandare in tilt macchinari, sfasciare provette e alambicchi. Poi s’è concentrato con maggiore attenzione su Ingegneria, facendola implodere eppoi esplodere nei suoi edifici A e B, di nuova costruzione per modo di dire. I tecnici della protezione civile sospirano davanti alla biblioteca, scuotono la testa di fronte alla presidenza invasa dalle macerie, allargano le braccia quando si tratta di fare una stima dei danni dell’anfiteatro che appoggiava accanto e che adesso s’è liquefatto sulla strada. Scienze ha preso botte da orbi ma è ancora là. Le facoltà umanistiche del centro storico, invece, il tecnico che ci fa da cicerone fa fatica a indicarcele.

Per non infierire sul Rettorato, inghiottito dalle rovine del suo palazzetto seicentesco. O sul rettore, che ha confessato pubblicamente d’aver perso la sua casa. Tutti pensavano all’università quando il Magnifico intendeva la propria abitazione.

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