Nell’Unione il suicidio c’è ma è di Prodi

Egidio Sterpa

Dice Arturo Parisi, l’amico più fedele di Prodi: «Tra il centro e la sinistra oggi è stato messo non un trattino ma un trattone». Insomma, si può girare come si vuole la situazione, ma va registrata una forte e obiettiva rottura nel centrosinistra. Il voto della Margherita contro la lista unica dell’Ulivo non è solo cronaca, è un fatto che fa storia perché, come ha annotato Peppino Caldarola sul Riformista, siamo a un «nuovo ’92», sta incubando la caduta della seconda Repubblica.
Proprio così, non c’è dubbio. La storia, si direbbe, sta prendendosi una rivincita. La prima Repubblica cadde per via giudiziaria dopo più di quarant’anni di vita in gran parte rispettabile, la seconda ha appena superato i due lustri e va morendo per insoddisfazione generale e, peggio ancora, per rifiuto persino di quanti ne hanno cantato peana pindarici. C’è soprattutto il ritorno d’orgoglio in ex democristiani come Marini e De Mita, i quali - lo rileva con disappunto lo stesso Parisi - pretendono di parlare da «cattolici» e non da sodali della Margherita. Insomma, si esce dalla botanica e si rientra nella politica classica. Riecheggia l’antico spirito democratico e cattolico. Meglio: si prova a riagganciare la storia di ieri, per stabilirne la continuità. Altro che seconda Repubblica, che è già morta e ora si tratta di attenderne la sepoltura.
Ma come poteva essere diversamente? Il centro-sinistra è nato in un mare di contraddizioni e ambiguità. Con la pretesa di mettere insieme nemici tradizionali, quali sono stati Dc e Pci per mezzo secolo. Due discordanze nette. Ha un bel sentenziare il prodiano Parisi («De Mita continua a confondere la strategia con la tattica e l’affabulazione con il pensiero politico»), il fatto che fa storia è che l’ex leader dei basisti si dichiari deluso e nei post-comunisti veda ancora «influssi di leninismo». Non è cosa di poco conto dopo tanti equivoci sia al centro che a sinistra.
Sì, lo sconfitto è Prodi, messo alle corde, quasi scomunicato. Il «suicidio politico», di cui ha parlato da Pechino reagendo alla batosta romana, dovrebbe attribuirlo a se stesso e non ai suoi competitori. Egli lo ha praticato frequentando troppo spesso Fassino e addirittura Bertinotti, trascurando, con supponenza, la complessità politica della Margherita, consociazione nata nella speranza e illusione di rappresentare una realtà politica e culturale di centro democratico e perciò determinante per il futuro governo del Paese. Prodi, designato alla leadership per comodità di immagine, non ha saputo né mediare, creando un equilibrio tra le diverse componenti dell’Ulivo, né proporre soluzioni originali o, peggio ancora, un programma. Ha finito con l’accettare l’egemonia della sinistra, fin di quella estrema bertinottiana, e soltanto per proprio tornaconto, neppure per convinzione, il che sarebbe stato assai più comprensibile.
Lasciamo stare le possibili o probabili conseguenze di simili avvenimenti. Che Rutelli, come qualcuno ipotizza, persegua una strategia craxiana, tesa cioè a sottrarre ai Ds il primato dentro l’Ulivo - come già Craxi, appunto, tentò in competizione con la Dc, pur restandovi alleato -, che i reduci Dc De Mita e Marini, figure politiche tutt’altro che irrilevanti, puntino ad intercettare l’elettorato di centrodestra, vale a dire i moderati, ha poca importanza in questa valutazione storica obiettiva che stiamo cercando di fare.
Conta invece, e molto, che proprio dal cuore del centrosinistra venga la conferma che la sinistra italiana non è ancora approdata a quel revisionismo che potrebbe farne una forza riformista per realizzare una moderna e liberale democrazia dell’alternanza.

Il centrodestra avrà pure i suoi problemi - e noi abbiamo l’onestà e la lealtà di denunciarli - ma garanzie di democrazia vera ne offre certamente più di Prodi.

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