NEO-ESISTENZIALISMO

Un’epidemia sconvolge un intero paese. Un’epidemia che in un primo momento sembra misteriosa ma che, ancor prima di fare delle vittime, provoca le reazioni più disparate: su tutte l’orrore e la paranoia che diventano la metafora di questi tempi di Nuova Inquisizione non solo morale. E quella che Philip Roth definisce Nemesi che, non a caso, è anche il titolo del suo nuovo libro (dal 2 febbraio nelle librerie per Einaudi).
In una sola parola il grande scrittore americano, forse il più grande, sintetizza tutte le tematiche che ha affrontato negli ultimi anni. Su tutte una precarietà più esistenziale che economica: la nostra tendenza a vivere in un’eterna ri(e)mozione forzata. Nemesi chiude un’ideale tetralogia di novelle, che proprio da quest’ultimo volume prende il titolo, «Le Nemesi», e che include anche Indignazione, L’umiliazione ed Everyman. I protagonisti di questi libri non sono né Nathan Zuckerman né David Kepesh, i personaggi che hanno reso famoso l’autore vincitore del Pulitzer e da anni ormai candidato (perennemente deluso) al Nobel.
Il Philip Roth delle «Nemesi» è un Roth più duro che feroce, più sconsolato che arrabbiato: un Roth in parte diverso da quello delle sue precedenti prove letterarie. Negli Stati Uniti è stato spesso accusato di ripetersi e di pubblicare, in questi ultimi anni, quasi meccanicamente un libro ogni dodici mesi. In realtà Roth si sta sempre più confermando un formidabile autore di «racconti lunghi», genere che notoriamente viene snobbato e che viene mascherato sotto la definizione di «romanzo». Anche se molti autori stanno convergendo su questo genere, molto più adatto ai piccoli (ma in realtà enormi) dilemmi del vivere quotidiano. Roth ha anticipato i tempi (lo hanno seguito tanti altri autori, anche molto diversi, come ad esempio lo Stephen King dell’ultimo Notte buia, niente stelle), andandosi a rifugiare in una dimensione letteraria più minimalista, più profonda, più intensa, con periodi che occupano pagine intere, ma senza sprechi. Con l’essenzialità dei lavori brevi dei grandi scrittori russi (su tutti Cechov o il Dostoevskij delle Notti Bianche), di un maestro come Conrad (forse il primo autore americano a intuire la forza comunicativa e letteraria del genere «novella» con il suo La linea d’ombra) e giungendo fino a un presunto irreale che ricorda sempre più da vicino Kafka, almeno nella descrizione di condizioni specifiche che divengono, in realtà, condizioni universali.
I temi sono quelli classici di Roth: paura, panico, rabbia, dolore, sofferenza. La trama è semplice, eppure perfetta: un meccanismo a orologeria perverso ma efficacissimo. È l’estate del 1944 e a Newark c’è un’epidemia di poliomielite. A rimanerne colpiti sono anche i ragazzini del campo giochi dove Bucky Cantor insegna educazione fisica. Cantor, il personaggio principale, è la tipica figura rothiana: lanciatore di giavellotto e sollevatore di pesi, ha ventitrè anni ed è cresciuto con gli insegnamenti del nonno, secondo il quale «il dovere era una religione, piuttosto che il contrario». Il grosso rimpianto di Bucky è di non essere stato arruolato per la guerra, a causa di un difetto alla vista. L’epidemia arriva come se fosse un sarcastico risarcimento dei suoi rimpianti, come un nemico esterno, una nemesi appunto. Con l’escalation della malattia, i membri della comunità ebraica a cui Bucky appartiene, cominceranno a rivolgersi alla religione, a cercare conforto in essa. Perché loro, perché persino Marcia, la fidanzata di Cantor, si rivolgono a un dio che ha permesso una tale crudeltà? Perché sperano nell’aiuto di un «padre del mondo» che ha voluto distruggere il futuro a ogni costo - con i ragazzi che sono andati a morire in guerra o con la poliomielite?
Ma quando Marcia dà a Bucky la possibilità di fuggire con lei a New York, dove li aspetta un lavoro, Bucky deve fare i conti con la propria coscienza, i valori, il senso del dovere - e con la sconfitta.
Senza dubbio Nemesi è il romanzo più “scuro” di Roth, un libro dove persino l’eros (elemento quasi sempre presente nel romanziere americano) scompare, dove prevalgono la «tirannia della contingenza», il caos, il disordine, il caso. Con Nemesi lo scrittore va a chiudere quella che qualcuno ha definito una serie di «parabole sull’innocenza perduta o sulla morte». Chi perde? Perde l’uomo, il protagonista di ogni storia che, in ogni storia, assiste al proprio declino. Perde Bucky Cantor, che è la summa di tutti i personaggi rothiani - colui che fa lo sforzo per tenere insieme le cose quando tutto va a pezzi, quando la terra gli viene a mancare sotto i piedi, quando il mondo va a rotoli.


E chi, o cosa, è la «nemesi»? La poliomielite? Dio? L’uomo stesso? Forse l’elemento unificante è davvero il fallimento che, nelle parole di Roth, non è altro che il destino. Il nostro. Quello di tutti noi. Persi ogni giorno a sognare un infinito che, alla fine, finisce qui.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica