A nessuno si può negare il diritto di sperare in un miracolo laico

Nell’infinità di problemi etici che ci sommergono - e ci sommergeranno - sempre più, eccone uno nuovo, singolare e capace di sbaragliare convinzioni radicate dall’una e dall'altra parte dei contendenti: un caso di «accanimento terapeutico a rovescio».
C'era, nell'ormai lontano 2001, una donna di appena 43 anni afflitta da un implacabile tumore al pancreas, con metastasi diffuse ovunque. Le restavano appena sei mesi di vita. I medici non le davano nessuna speranza, anche un'operazione non avrebbe risolto il problema. Ma la donna - la chiameremo Luce - vuole, disperatamente vuole, vivere. Contro il parere dei medici curanti, viene operata, e muore sotto i ferri.
Ieri la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per omicidio colposo a tre dottori. E questo è già un aspetto che ci pone dei problemi: i tre clinici sapevano che l'operazione non sarebbe servita, ma non potevano prevedere che avrebbe portato alla morte immediata. Non era un loro dovere confidare nella volontà di guarire della povera Luce, provarci, anche senza crederci? Ma si tratta di un problema secondario rispetto a quello più complesso e vasto di un individuo che, vistosi spacciato, pretende si eserciti sul proprio corpo un accanimento terapeutico estremo, fino a un'operazione chirurgica delicatissima e forse fatale.
I contendenti dei due diversi campi, dicevamo, sono sparigliati e sbaragliati. Chi è favorevole all’accanimento terapeutico, e quindi contrario all'eutanasia, dovrebbe oggi essere contrario alla sentenza della Corte di Cassazione, lodare Luce e i medici che involontariamente l'hanno uccisa con sei mesi di anticipo. C'è però da dubitare che possano e vogliano farlo: il tentativo fatto da Luce e da chi era preposto alla sua sopravvivenza somiglia troppo a una roulette russa, a una la va o la spacca, metà suicidio metà speranza di un miracolo. È stato, in definitiva, un tentativo disperato per cambiare il percorso fatale vita-morte: con un rischio tale da trasformare il desiderio di vivere in un'accelerazione della morte.
Cosa può pensare, invece, chi è favorevole all'eutanasia e contrario all'accanimento terapeutico, se è il malato a rifiutarlo? Appartenendo alla schiera di costoro, mi è più facile rispondere. È evidente che Luce sperava in un miracolo. Forse, immagino, prima ha sperato in quello divino; poi si è arresa a confidare in quello scientifico, benché i medici, a differenza dei santi, non lascino sperare miracoli. Un'irrazionalità dell'ammalata, dettata probabilmente dal dolore, dalla disperazione e da una speranza che non muore mai.
Ma credo che Luce avesse tutto il diritto di tentare, come avrebbe avuto diritto di morire subito, se quei sei residui mesi di dolore e angoscia le fossero sembrati indegni di essere vissuti. Lei non voleva morire, né per colpa della malattia né per mano dei medici, o per una spina staccata da mani pietose. Voleva tentare di vivere, con tutto l'azzardo e tutto il nuovo dolore che quel tentativo comportava.

Era un suo diritto disporre così della propria vita, giocarsela al superenalotto di un’operazione impossibile.
Perché Luce, come tutti, doveva essere libera di scegliere come e se vivere, come e se morire. Rendiamole un pensiero affettuoso.
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