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New York risorge sempre Elogio della Grande Mela a otto anni dalla tragedia

Il 13 settembre 1609 John Hudson mise piede in quella terra destinata a diventare il centro del mondo. Un luogo-simbolo del coraggio e della voglia di fare. Anche dopo le Twin Towers

New York risorge sempre 
Elogio della Grande Mela 
a otto anni dalla tragedia

New York è qui, ai piedi di se stessa. Cemento, vetro, altezza, impresa, anima, ideale, profondità, scommessa, futuro. Un isolato per capire: il quadrato che fa da base all’Empire State Building. Alza gli occhi e capirai che cos’è questa città: uno slancio nel cielo e uno nella storia dell’umanità. Guarda e pensa: New York ha raggiunto il suo punto più alto nel momento più basso della Depressione. Basta questo per capire. È il suo compito, il suo destino. Quello che gli altri non saranno, quello che gli altri non possono essere. Quattrocento anni oggi, un ruolo scritto da nessuna parte eppure conosciuto da tutti: New York è il centro, l’asse, il pilone. New York è l’Empire, metafora dell’idea di arrivare più in alto possibile anche quando il possibile dice di andare dall’altra parte. New York è il cuore che pompa l’umanità sulla terra. New York è tutto: la libertà, la capacità, la voglia, il disincanto, il dolore, la frenesia, la felicità. È un essere umano: esprime emozioni, sensazioni, sentimenti. Forse perché è troppo piccola per essere così grande: s’è sviluppata in altezza perché non aveva altro spazio. Però così è diventata quello che è: l’unico posto su questo pianeta che va al di là delle sue possibilità ogni giorno. Per il mondo è quello che una Chiesa è per ogni paesino: il simbolo visibile dell’aspirazione, il pennacchio di fumo che indica la strada verso l’alto. È come se ci voltassimo ogni volta verso Ovest, superassimo l’Atlantico e stessimo a guardare quello che succede su quel pezzo di terra che s’infila dentro l’acqua. Aspetta l’ispirazione. Ci svegliamo quando lei dorme e a un certo punto attendiamo che si svegli lei per capire dove andiamo. La Borsa, certo. Poi il resto: il costume e lo stile di vita, la diplomazia e il nostro modo di vestire, i film e la televisione. New York è un’aspettativa infinita: non è la città della moda, ma fa la moda. Non è la città del cinema, ma fa il cinema. Non è la città della politica, ma fa la politica.

È un miracolo, New York. Il nostro. Perché è incredibile il solo fatto che esista ancora. Quante volte sarebbe potuta morire? Ci ragionava E.B. White, sessant’anni fa: «Avrebbe dovuto autodistruggersi, avrebbe dovuto sperimentare un ingorgo insuperabile, in una qualche impossibile strozzatura. Avrebbe dovuto morire di fame per una breve mancanza di approvvigionamenti alimentari. Avrebbe dovuto essere stata spazzata via da un’epidemia partita da uno dei suoi quartieri poveri o portata in città dai ratti delle navi. Avrebbe dovuto essere sommersa dai mari che ne lambiscono ogni fianco. Sarebbe dovuta impazzire, colpita alla testa dal caldo di agosto».
Sta qui, invece. Uguale, diversa, modificata, aggiornata. Con gli stessi problemi, con le stesse mancanze. Sta qui a dire a un gruppo di vigliacchi terroristi che l’11 settembre 2001 l’ha ferita, lasciata in lacrime, azzoppata, ma non uccisa. Non si ammazza il mito. Oggi piangerà di nuovo, Manhattan e con lei Brooklyn, Queens, Bronx e Staten Island, mondi lontanissimi tra loro e da noi, ma ogni anno alla stessa ora trasformati in una città senza nazione e senza bandiere. Poi si rimetterà al lavoro, come sempre. Come fece dopo l’attacco e come fa oggi, mentre combatte per uscire da una crisi che lei stessa ha creato. Quando New York riprenderà a marciare a pieno regime, il mondo la seguirà. È così e non chiedetevi perché, basti sapere che non c’è paragone possibile, non c’è alternativa immaginabile: questa città è l’epicentro di ogni attività, buona o brutta che sia. Non funziona come Zurigo, non ha la storia di Roma, non ha la bellezza di Parigi. È diversa, unica. Sbagliata, quindi perfetta. È inadeguata, precaria, imprecisa. È un gigante traballante: entri in una metropolitana e ti chiedi se ne uscirai, perché sai che questo è l’obiettivo di ogni vigliacco terrorista. Eppure ogni giorno nelle viscere di Manhattan si infilano dieci milioni di persone. Strette, vicine, mischiate. È stato calcolato che nelle ore di punta ognuno ha uno spazio vitale di 75 centimetri. New York dovrebbe esplodere in un attacco di panico o di isteria, dovrebbe soffocare nella claustrofobia collettiva. Invece no, la gente sorride e se non sorride si fa i fatti propri, sobriamente, senza esagerare. È lo spirito dei newyorchesi, questo: gli scivola addosso il mondo, perché loro ci sguazzano dentro da sempre, ognuno da un momento della vita, inizio, metà, fine, oppure a intermittenza. Perché ci sono tre tipi di newyorchesi. C’è chi ci è nato, chi ci è arrivato da emigrato, chi ci viene ogni giorno per tornare a casa la sera: i pendolari le danno il movimento, i newyorchesi di nascita le danno solidità e continuità, i nuovi residenti le danno passione. Perché New York è un punto d’arrivo, una meta. È l’eccitazione che ti porta a Manhattan, l’idea di sentirti a casa anche se la casa l’hai appena lasciata per un nuovo mondo. È poesia, grinta, voglia di conquista.

Chiunque arrivi a New York la fa sua. Ce ne è una per tutti. Forse perché è stata presa per la prima volta da uno che veniva da fuori: 13 settembre 1609. Quattro secoli, appunto. Allora siamo tutti figli di John Hudson che arrivò via mare per mettere piede nel cuore della terra. Il mare che è un fiume. Qui comincia New York e qui non finisce, perché non l’ha distrutta la cattiveria dei terroristi e non lo farà nessuno. Lo dice l’Empire fermo, alto, imperiale nel pieno di quest’altra crisi. Edificio più alto di Manhattan ancora, per mano di chi ha tirato giù le Twin towers, massacrando l’Occidente, senza capire che l’unico posto dove l’Occidente può rigenerarsi è proprio quello che hanno colpito. Simboli, certo. Però per tutti: Al Qaida ha sfregiato l’emblema del nostro modo di vivere e noi non l’abbiamo lasciato morire proprio perché è la bandiera del nostro mondo. Ci siamo stati a New York. Quelli che l’hanno fatto per davvero e quelli che non ci hanno mai messo piede.

«Leaving New York, never easy», cantano i Rem, in una canzone scritta dopo l’11 settembre 2001. È una città che non ti lascia mai e dalla quale è troppo difficile partire. Ti resta dentro. È la voglia di ricominciare. È casa, di nuovo. Una magia familiare. Un pezzo di se stessi trovato dall’altra parte dell’Oceano. New York è mastodontica e piccola insieme. Si spinge vero l’alto, ti sovrasta con il cemento, poi a un certo punto si apre in una piazza con un bar, i tavolini all’aperto, i cani che corrono, gli scoiattoli che mangiano le noccioline. È una città fatta di quartieri: cinque, sei isolati, non di più. C’è gente, a Manhattan, che vive al centro del mondo e sembra non essere mai uscita dall’Italia, o dalla Grecia, o dal Puerto Rico. Glocale. Una mela che ci morde e lascia un sapore conosciuto e ti fa vedere ogni giorno le stesse facce, gli stessi riti, le stesse manie. Un paese immerso in una megalopoli. Succede anche in metropolitana. Linea 7. «Scendi dal mondo e sei a casa», ha scritto Emanuela Audisio, raccontandola. È la vena dentro cui passa il sangue di New York. C’è tutto: «Cipolla, aglio, peperoncino, curry, melanzana, peperone, chili, farina, miele, acqua di rose, zenzero, cocco, tapioca. Dalle sei di mattina alle dieci di sera. L’odore della strada, del mercato, della cucina di mamma. Quello che è solo tuo, impastato con l’infanzia. Bastano due dollari, per non trovare più l’America, per tornare nella culla, per far finta di non essere mai partiti. Sette è il numero magico, viola è il colore. Un tappeto di Aladino che ha le ruote, viaggia sul binario e attraversa il mondo, senza mai lasciare la città. Undici carrozze per non sentirsi più lontani, disgraziati che hanno dovuto lasciare, andare, salutare. La linea 7 scivola sulle malinconie, passa per centocinquanta etnie diverse. Un ripasso della geografia. È un’Odissea dagli incroci antichi, ti dice chi sei stato e chi sarai».

Se ti sputa fuori, la metropolitana ti fa vedere una città che andrebbe fotografata sempre e solo dall’alto. Così, giusto per far capire che a un certo punto finisce. Perché quando ci sei in mezzo, pensi sempre che New York sia infinita. Non si vede un altro orizzonte neanche quando arrivi alla punta sud, a Downtown, dopo aver superato la voragine di Ground Zero, e ti affacci verso il mare: vedi la Statua della Libertà, vedi Ellis Island, la porta d’ingresso al sogno di questa città per milioni di italiani, irlandesi, tedeschi, russi, olandesi, cinesi, coreani, giapponesi. Anche lì, New York non ha più palazzi, ma ha la sua identità. Quella di essere unica, un mondo a parte, eppure pienamente americano. Di sentirsi migliore anche quando sbaglia. È così che è diventata il centro del pianeta. La linea 7 è un’icona perché la mobilità dell’individuo è un valore che aiuta il progresso sociale. Il trasporto è vita, aiuta lo sviluppo, lo accelera. New York si muove anche quando resta ferma. Non c’è posto al mondo che cambi così senza cambiare mai: spariscono certe cose e ne nascono altre, si gentrifica, come dicono i manhattanite, quando vogliono raccontare che i vecchi quartieri disagiati stanno diventando chic. Era proibizionista, poi libertaria, poi hippie, poi yuppie, poi liberal, poi aggressiva, poi violenta, poi salottiera, poi ricca, poi fallita, poi rinata. Sempre e comunque con dei confini, dando l’impressione di non poterne avere. Nel 1931, quando fu completata la costruzione dell’Empire State Building, lo studio di architettura Shreve, Lamb & Harmon Associates invitò Francis Scott Fitzgerald a salire sul tetto. Lo scrittore guardò e prese appunti, poi raccontò la suggestione di quel momento in My lost City: «Dal suo grattacielo più alto, il newyorchese ha veduto per la prima volta che la metropoli svaniva nel territorio da tutti i lati. E nel terribile momento in cui si è accorto che New York era una città dopo tutto, non un universo, l’intero edificio scintillante che egli aveva costruito nella sua immaginazione è venuto a crollare sul terreno». C’è ancora, ovviamente. C’è e come tutto il resto ci sarà. Perché New York finisce geograficamente, ma non nello spirito, non nel modo di fare e di essere: individualista, innovativa, libera, imprenditoriale, avventuriera, a caccia di ricchezza. Perché i dollari hanno costruito l’essere di questa città più di ogni straordinario architetto. Manhattan li ricicla, li usa, li spende per sentirsi migliore, per avere più degli altri. Fu comprata per 22 dollari: è sempre stata una questione di soldi, certo. Si lavora per farli, si lavora per goderli.

Il 12 settembre è il giorno dopo le lacrime. Domani, dopo oggi. Poi quello dopo ancora arriva la festa: quattrocento anni di eternità, in bilico, violentata da chi la odia, sposata da chi la ama. New York siamo noi, anche quando non vogliamo ammetterlo. Invincibile: «La città dove il futuro si deve presentare per fare le audizioni». Immortale con lo spirito che si trascina in ogni angolo, a ogni svincolo tra una avenue e una street. Si cammina con lei, accanto a se stessi. Si va verso qualcosa, verso qualcuno.

Verso New York anche quando ci sei già dentro.

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