"Niente mutande..." Ora il Pd si ritrova nudo

Nelle intercettazioni sul caso Penati emerge un linguaggio ambiguo: le conversazioni in codice del dirigente confermano che la questione morale è aperta

"Niente mutande..." 
Ora il Pd si ritrova nudo

«Aldo dice 26 per 1»: con queste parole, scelte per sfuggire all’intercettazione di tedeschi e fascisti e destinate a entrare nella storia, il Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia ordinò la sera del 24 aprile 1945 l’insurrezione generale a Torino. Il codice non era poi così difficile da decifrare: indicava il giorno (26) e l’ora (l’una di notte). Ad ogni modo, funzionò. Chissà invece che cosa significano le «scarpe», le «ciabatte» e le «mutande» di cui il portavoce di Filippo Penati discuteva l’anno scorso con il suo capo subito dopo aver incontrato Bruno Binasco, top manager del gruppo Gavio nonché, secondo la Procura di Monza, illecito finanziatore dell’ex braccio destro di Bersani.
Il paragone con la Liberazione è senz’altro irriguardoso, ma non poi così azzardato. A leggere le carte che descrivono la comprensibile agitazione di Penati e soci all’indomani della decisione della Corte dei Conti di non archiviare la vicenda Milano-Serravalle, infatti, sembra di assistere ai preparativi insurrezionali di un gruppo di agitatori: incontri furtivi in stazione (purtroppo rovinati dall’imprevista comparsa di un amico di Binasco, ignaro di trovarsi al momento sbagliato nel posto sbagliato), sms in codice, telefonate ridotte a scarni monosillabi («Dopo, eh…»), triangolazioni, veloci scambi di informazioni al bar, tra la folla, per non essere intercettati. Ma anziché la rivoluzione, Penati preparava (secondo l’accusa) una linea di difesa comune che salvasse, nei limiti del possibile, la «ditta».
«Ditta» è il nome con cui scherzosamente Pier Luigi Bersani ama chiamare il suo partito: è un vezzo che risale al vecchio Pci, comune anche ad altri dirigenti, e che mostra al contempo un affetto paternalistico e una pretesa efficientistica che mal si conciliano con lo stato attuale del Pd, dove ad un tasso molto basso di pragmatismo si unisce una radicata antipatia reciproca fra i massimi dirigenti. Fatto sta che la «ditta», o quantomeno una sua importante filiale lombarda, funzionava in ben altro modo.
Il fiume di denaro che nel corso degli anni sarebbe giunto in un modo o nell’altro al gruppo di Penati supererebbe i diversi milioni di euro, forse finiti (secondo la testimonianza dell’imprenditore «pentito» Di Caterina) a Dubai, a Montecarlo e in Sudafrica. E il meccanismo di finanziamento, nella sua semplicità, lascerebbe poco spazio alle sfumature: appalti (pubblici) in cambio di denaro.
In quest’opera di fund raising non propriamente trasparente, lo staff di Penati era impegnato a ogni livello: e anzi proprio il portavoce, Franco Maggi, sembrerebbe aver avuto un ruolo essenziale come ufficiale di collegamento. Quando (ri)scoppia il caso Milano-Serravalle, è Maggi ad incontrare via via tutti i protagonisti; è lui a riferire i colloqui a Penati; ed è lui a rassicurarlo, dopo un incontro con Binasco, con parole che, è facile prevedere, diventeranno il simbolo di questa inchiesta: «Niente scarpe, niente ciabatte, niente mutande». Non sappiamo bene che cosa significhino, ma Penati evidentemente sì, tanto che subito se ne rallegra: «Oh la Madonna, nessun problema insomma».
I problemi, invece, ci sono eccome. Alle mutande (vere) che Giuliano Ferrara esibì in un teatro milanese qualche mese fa, per mettere alla berlina e prendere in giro l’improvvisa e compulsiva passione nazionale per le notti del presidente del Consiglio, si aggiungono ora le «mutande» (metaforiche) di Penati. La cui pubblica ostensione per via giudiziaria rischia di creare un serio problema al Partito democratico.
I fischi lanciati dai manifestanti durante lo sciopero generale al sindaco di Livorno e - a Genova - a Massimo D’Alema saranno forse un caso o un episodio isolato, ma potrebbero segnalare qualcosa di più: un sentimento insieme di delusione e di rabbia verso un partito che ha cavalcato forse troppo spensieratamente la «questione morale», salvo poi ritrovarsi più o meno nella situazione degli altri.


La sospensione di Penati ad opera dei garanti del Pd segnerà pure una differenza importante rispetto ad altri partiti, ma non risolve affatto la questione, che è squisitamente politica. E fino a che non verranno risposte adeguate, il Pd in mutande farà fatica a convincere l’opinione pubblica di essere il perno dell’alternativa.

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