«Ci sono ancora dei giudici a Brasilia» è stata la mia prima reazione alla conclusione del caso Battisti, parafrasando quello famoso del mugnaio prussiano che aveva ottenuto giustizia dopo trent'anni. Nel togliere - al termine di un interminabile braccio di ferro tra potere esecutivo e potere giudiziario - lo status di rifugiato politico a Cesare Battisti, il terrorista condannato all'ergastolo in Italia per quattro omicidi, il Tribunale federale supremo ha infatti avuto il coraggio di ignorare l’originaria volontà del presidente Lula e soprattutto quella del suo Guardasigilli Genro. Nel riconoscere che i crimini di Battisti sono stati comuni e non politici, i giudici hanno sancito non solo la vittoria del diritto, ma anche quella del buon senso, di cui lo stesso capo dei Proletari armati per il comunismo aveva fatto strame nel tentativo di evitare la sentenza che apre finalmente la strada alla sua estradizione. Peccato, però, che la Corte - quasi spaventata del proprio coraggio - abbia poi indetto una seconda sessione per stabilire se la sua decisione è vincolante o no per il capo dello Stato, autorizzando gli avvocati di Battisti (una specie di Soccorso rosso in salsa carioca) a sperare ancora.
Il killer ha già tentato di tutto: ha sostenuto che in Italia sarebbe stato ammazzato, perché vi esiste ancora un «apparato di repressione illegale»; ha accusato la magistratura italiana di avere usato la tortura nei processi contro i presunti terroristi; ha ribadito in una lettera al Tribunale la sua innocenza, affermando spudoratamente di «non essere mai stato un sanguinario, ma solo un militante come tanti altri»; ha minacciato che se fosse stato rimandato in Italia si sarebbe ucciso; infine, quando la scorsa settimana il Tribunale ha rinviato ancora la decisione, ha proclamato lo sciopero della fame, «disposto a portare la protesta fino alle estreme conseguenze». Nel ministro Genro, a sua volta uomo con un passato di estremista, ha trovato un sostenitore irriducibile, il quale ha avuto la faccia tosta di affermare che «le interferenze del governo italiano sul caso Battisti sono un tentativo di umiliare il Brasile». Ha goduto anche, fino all'ultimo dell'appoggio dell'Internazionale degli intellettuali di sinistra e di alcuni «amici» nello stesso Tribunale supremo.
Ma alla fine, a decidere la sua sorte in presenza di un pareggio tra gli altri membri della Corte è stato il presidente Mendes, che del capo dello Stato è un fiero avversario. Tutto perciò indurrebbe a sperare che Battisti sia arrivato all'ultima spiaggia, se i percorsi della giustizia brasiliana non fossero così intricati e non ci fosse ancora l'eventualità che prima dell'estradizione debba essere processato per immigrazione illegale. Comunque, bisogna augurarsi che Lula non faccia altri scherzi.
C'è infatti ancora la possibilità che pur di non sconfessare Genro e scontrarsi con la sua sinistra, il presidente ignori la sentenza, ma sarebbe davvero una mossa azzardata: si è impegnato pubblicamente a rispettarla, il suo stesso governo è spaccato in materia (il ministro degli Esteri Amorin ha definito «assurda» la posizione di Genro) e comunque un suo intervento a favore di Battisti a questo stadio sarebbe un vero e proprio schiaffo all'Italia, con cui Lula ha detto e ripetuto di volere mantenere gli attuali eccellenti rapporti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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