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No a cifre milionarie o si perde il senso della proporzione

Un uomo vale quanto guadagna? O guadagna quel che vale? E un manager guadagna per quanto fa a sua volta guadagnare? E se, invece, fa perdere soldi, deve guadagnare zero? E ancora: quando l’azienda che guida realizza tanti utili, come vanno ripartiti i meriti, e dunque decisi gli stipendi, tra il top manager e gli altri dipendenti?
Gli incroci tra ragione, economia e morale, in tema di retribuzioni, sono complessi e si prestano alle più diverse teorie. Ma c’è almeno un punto di caduta su cui non bisogna transigere: un reddito non può essere grande a piacere, non può tendere a «più infinito». Ci vuole proporzione. E un momento di depressione economica come questo, che non trova pari dalla seconda guerra mondiale in poi, è senz’altro uno di quei passaggi in cui le proporzioni vanno ricalcolate. Anche perché è ormai una certezza che la crisi sia stata ampiamente anticipata dagli eccessi che avevamo sotto ai nostri occhi.
Purtroppo si tende a non imparare dagli errori del passato. «Il compenso del presidente di una grande società non deve mai superare quello della media dei suoi dipendenti, moltiplicato per 20». Chi l’ha detto? È stato John Pierpont Morgan, il banchiere fondatore di JP Morgan, che così parlava nei primi anni del secolo scorso. Quando non a caso erano nell’aria gli eccessi che, anche allora, anticiparono la grande crisi. Ebbene, si pensi che oggi, in Italia un impiegato guadagna mediamente intorno ai 25mila euro lordi l’anno. Significa che il suo presidente (prendendo l’impiegato come media, nel privato, anche tra i molti operai e i pochi dirigenti dello stesso gruppo), secondo J. P. Morgan dovrebbe guadagnare intorno ai 500mila euro lordi. Nel settore pubblico forse di meno, visto che i redditi sono più bassi. Ma non cambia molto. In ogni caso questo sembra il corretto metodo di ragionamento, che trova - va detto - ampio riscontro in Italia. Ma le eccezioni ci sono anche tra i grandi manager pubblici. Soprattutto se si allargasse l’indagine alle società di fatto controllate dallo Stato quali Eni, Enel e Finmeccanica.
D’altra parte il fenomeno dei redditi milionari dei manager (pubblici e privati) ha subito un’accelerazione proprio negli ultimi anni. Si pensi che negli Usa, nei primi anni Settanta, le remunerazioni dei primi 100 manager Usa erano mediamente pari a 39 volte la media dei loro dipendenti. Mentre nel 2004 il multiplo ha superato quota mille!
Il punto è che, oltre un certo limite, nulla giustifica i super-redditi. A maggior ragione se arrivano dalle casse dello Stato. Anche perché il super stipendio, legato magari all’utile, piuttosto che al reddito operativo della società o ad altri parametri, porta con sé la tentazione di truccare le carte proprio per centrare tale obiettivo. Fino al paradosso di dimenticare la massimizzazione del profitto della società, per puntare alla propria. Ben venga dunque un tetto allo stipendio dei manager pubblici, legato a una proporzione condivisa, e naturalmente seguito da stessa scelta anche in ambito privato (come sta avvenendo negli Usa).

Perché se no va da sé che lo Stato dovrà rinunciare in partenza ai bravi manager, che preferiranno senza indugio andare a lavorare nei gruppi privati.

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