Roma - Nessun intervento post manovra sulla previdenza; «non ne vogliamo sentire parlare» conferma il leghista Mauro Reguzzoni. Il ministro Umberto Bossi è ancora più esplicito e mostra il dito medio ai cronisti che gli chiedono se è vero che il governo metterà mano alle pensioni. Ma il tema è destinato a tornare nell’agenda del governo, come ha confermato ieri il premier Berlusconi. Se le istituzioni europee lo dovessero chiedere dando un’indicazione precisa su dove piazzare l’asticella dell’età pensionabile, se ne può parlare. Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha chiesto giorni fa alle parti sociali un tavolo per discutere di misure che incidano sulla spesa nel medio e breve termine, ricevendo peraltro un rifiuto da tutte le sigle dei lavoratori. Se il governo vorrà intervenire, dovrà farlo da solo e con l’opposizione dei sindacati. Tra le misure possibili, resta quella soft, con un anticipo di quota 97 al 2012.Quindi l’anticipo di un anno dell’entrata in vigore dell’ultima riforma, che porta i requisiti minimi per l’anzianità a 62 anni e 35 di contributi. Ma restano forti le spinte di chi vorrebbe «quota 100» e quindi l’abolizione dell’anzianità, con un aumento graduale dell’età pensionabile fino a 64 anni nel 2015, che porterebbe a regime, circa 2,6 miliardi di risparmi all’anno.
Chi chiede interventi drastici lo fa perché le pensioni pesano troppo sui conti pubblici. Dai 30 miliardi all’anno del 1980 si è passati ai quasi 300 miliardi di spese correnticomplessive degli enti previdenziali. Limitandosi ai privati, nel 2009 le pensioni Inps sono costate più di 250 miliardi di euro per una percentuale del Pil che nel 2009 era del 16,7% e si assesterà sul 13,5% solo nel 2060, lasciando poco spazio alle altre politiche.
Al netto dei contributi pagati dai lavoratori - ricorda Alberto Brambilla, presidente del nucleo di valutazione della spesa previdenziale- ogni anno restano da pagare 75 miliardi di euro, tutti a carico della fiscalità generale.
Se le pensioni pesano sulla spesa pubblica è perché il sistema previdenziale italiano è stato, in un passato recente, generosissimo e quando è diventato ineludibile mettere in sicurezza i conti, ha scaricato i sacrifici sulle generazioni future. Il «peccato originale» è la riforma Dini del 1995 che introdusse il sistema contributivo (pensioni calcolate sulla base dei contributi versati) ma mantenne per alcuni il retributivo (calcolate sugli ultimi stipendi) o il misto.
La misura della disparità di trattamento tra vecchie e nuove generazioni la dà un altro indicatore classico della previdenza, le «aliquote di equilibrio teoriche», cioè quelle che ogni lavoratore dovrebbe pagare per coprire l’importo della sua pensione effettiva. I lavoratori dipendenti privati che sono andati o andranno in pensione con il retributivo o il misto- calcola sempre Brambilla - avrebbero dovuto pagare il 46,6% dello stipendio, mentre l’aliquota media è del 33%. C’è un 13% di contributo che viene finanziato con la spesa pubblica e con i contributi pagati dalle nuove generazioni. Nel caso di chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 l’aliquota di equilibrio teorica e quella effettiva coincidono. Le nuove generazioni, le pensioni, se le pagheranno da sole.
La tesi di Brambilla è che «ci vorrebbe il coraggio di spiegare, con argomenti tecnici, le cose come stanno agli italiani, in primo luogo sulla spesa sociale». Il welfare italiano «che fino a pochi anni fa era sotto di 2-3 punti percentuali rispetto a quello europeo, ormai è sopra.
È intorno al 26% se si considera solo quello dello Stato, ma arriva al 28% con le spese di regioni e comuni, circa due punti sopra la media europea». È una verità scomoda, ma è un dato che sarà sempre più difficile ignorare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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