Nodo pensioni, spunta una cura d'emergenza Forse anzianità a 62 anni con 35 di contributi

Un peso da 75 miliardi sui conti pubblici. Come rimedio il governo valuta anche di lasciare dal 2015 solo quella di vecchiaia, con 2,6 miliardi di risparmio. Ritocchi al decreto: no della Lega, ma per il Cav il tema tornerà in agenda

Nodo pensioni, spunta una cura d'emergenza 
Forse anzianità a 62 anni con 35 di contributi

Roma - Nessun intervento post ma­novra sulla previdenza; «non ne vogliamo sentire parlare» confer­ma il leghista Mauro Reguzzoni. Il ministro Umberto Bossi è ancora più esplicito e mostra il dito me­dio ai cronisti che gli chiedono se è vero che il governo metterà ma­no alle pensioni. Ma il tema è desti­nato a tornare nell’agenda del go­verno, come ha confermato ieri il premier Berlusconi. Se le istituzio­ni europee lo dovessero chiedere dando un’indicazione precisa su dove piazzare l’asticella dell’età pensionabile, se ne può parlare. Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha chiesto giorni fa alle parti sociali un tavolo per discute­re di misure che incidano sulla spesa nel medio e breve termine, ricevendo peraltro un rifiuto da tutte le sigle dei lavoratori. Se il go­verno vorrà intervenire, dovrà far­lo da solo e con l’opposizione dei sindacati. Tra le misure possibili, resta quella soft, con un anticipo di quota 97 al 2012.Quindi l’antici­po di un anno dell’entrata in vigo­re dell’ultima riforma, che porta i requisiti minimi per l’anzianità a 62 anni e 35 di contributi. Ma resta­no forti le spinte di chi vorrebbe «quota 100» e quindi l’abolizione dell’anzianità, con un aumento graduale dell’età pensionabile fi­no a 64 anni nel 2015, che porte­rebbe a regime, circa 2,6 miliardi di risparmi all’anno.

Chi chiede interventi drastici lo fa perché le pensioni pesano trop­po sui conti pubblici. Dai 30 miliar­di all’anno del 1980 si è passati ai quasi 300 miliardi di spese corren­ti­complessive degli enti previden­ziali. Limitandosi ai privati, nel 2009 le pensioni Inps sono costate più di 250 miliardi di euro per una percentuale del Pil che nel 2009 era del 16,7% e si assesterà sul 13,5% solo nel 2060, lasciando po­co spazio alle altre politiche.

Al netto dei contributi pagati dai lavoratori - ricorda Alberto Brambilla, presidente del nucleo di valutazione della spesa previ­denziale- ogni anno restano da pa­gare 75 miliardi di euro, tutti a cari­co della fiscalità generale.

Se le pensioni pesano sulla spe­sa pu­bblica è perché il sistema pre­videnziale italiano è stato, in un passato recente, generosissimo e quando è diventato ineludibile mettere in sicurezza i conti, ha sca­ricato i sacrifici sulle generazioni future. Il «peccato originale» è la ri­forma Dini del 1995 che introdus­se il sistema contributivo (pensio­ni calcolate sulla base dei contri­buti versati) ma mantenne per al­cuni il retributivo (calcolate sugli ultimi stipendi) o il misto.

La misura della disparità di trat­ta­mento tra vecchie e nuove gene­razioni la dà un altro indicatore classico della previdenza, le «ali­quote di equilibrio teoriche», cioè quelle che ogni lavoratore dovreb­be pagare per coprire l’importo della sua pensione effettiva. I lavo­ratori dipendenti privati che sono andati o andranno in pensione con il retributivo o il misto- calco­la sempre Brambilla - avrebbero dovuto pagare il 46,6% dello sti­pendio, mentre l’aliquota media è del 33%. C’è un 13% di contribu­to che viene f­inanziato con la spe­sa pubblica e con i contributi paga­ti dalle nuove generazioni. Nel ca­so di chi ha iniziato a lavorare do­po il 1995 l’aliquota di equilibrio teorica e quella effettiva coincido­no. Le nuove generazioni, le pen­sioni, se le pagheranno da sole.

La tesi di Brambilla è che «ci vor­rebbe il coraggio di spiegare, con argomenti tecnici, le cose come stanno agli italiani, in primo luo­go sulla spesa sociale». Il welfare italiano «che fino a pochi anni fa era sotto di 2-3 punti percentuali rispetto a quello europeo, ormai è sopra.

È intorno al 26% se si consi­dera solo quello dello Stato, ma ar­riva al 28% con le spese di regioni e comuni, circa due punti sopra la media europea». È una verità sco­moda, ma è un dato che sarà sem­pre più difficile ignorare.

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