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Noi genitori traditi dalla menzogna

Ferma in mezzo al box, leggermente coricata sul cavalletto, la moto di mio figlio. Stessa marca, stessa cilindrata, stessi colori. Identica a quella che ha ucciso, a Bormio, un bimbo di tre anni e, poi, è sparita nel buio della notte. Sembra un mostro di acciaio, nella penombra del garage. Mi ha sempre fatto paura. Classiche contraddizioni da genitore: gliela regali perché non sai resistere alle sue incalzanti pressioni e, dopo, vivi nel timore che possa farsi del male. Lui. Egoismo allo stato puro. Certo, sai che potrebbe fare del male anche ad altri, gliel’hai ripetuto cento volte, attento, vai piano: un bambino potrebbe attraversarti all’improvviso la strada. Però, pensi soprattutto a lui, a tuo figlio, ai suoi diciassette anni vissuti talvolta un po’ pericolosamente.
Ma ora che sono qui davanti a questa maledetta motocicletta, non penso a mio figlio. E nemmeno a quel bambino di tre anni che non c’è più. Certo, mi strazia il pensiero dei suoi genitori, il loro dolore infinito, perché non avrà mai fine. Ma, adesso, sono qui ad immaginare lo sgomento, la rabbia e la disperazione di quegli altri genitori. I padri e le madri di quei due ragazzi che sono fuggiti davanti alla morte, una morte che hanno nascosto. Forse per paura, forse per vigliaccheria, forse... Comunque sia, non c’è giustificazione.
In questo piccolo e allo stesso tempo immenso dramma, penso guardando questa moto da cross, tre famiglie hanno perso i figli. Certo, persi. È morto un bimbo di tre anni, nel modo più assurdo e inspiegabile. Non c’è più. Ma per un padre e una madre possono esistere ancora i due figli che per quattro giorni hanno nascosto una verità così tragica, così infame? Come potranno mai dimenticare che per quattro sere, cenando come tutte le famiglie italiane davanti ai tiggì, quei ragazzi non hanno mai avuto il coraggio di scoppiare a piangere davanti a quella notizia così cruda riflessa nello schermo e confessare la loro verità?
Io, padre, mi chiedo: saprei perdonare mio figlio se fosse stata la sua moto maledetta a travolgere quel bimbo? Certamente sì. Se lui si fosse immediatamente fermato e avesse subito affrontato la realtà e il peso della propria colpa. Da uomo. E a diciassette anni si è quasi uomini. Forse, l’avrei perdonato anche se fosse scappato, ma davanti al peso di un omicidio, dopo poche ore avesse confessato. Gli avrei perdonato l’assoluta mancanza di controllo della sua paura, della sua vigliaccheria. E, come tutti i padri, l’avrei protetto. Gli sarei stato accanto per aiutarlo, non a dimenticare, a cercare di ricominciare.
Ma così no. Con tutta la disperazione e il dolore che penso di poter sopportare, gli chiuderei la porta della mia vita in faccia. Per sempre. E non certo per l’umiliazione che i genitori di questi due giovani disgraziati possono provare. Ma perché sentirei traditi i tanti piccoli insegnamenti che ho cercato di trasmettere a mio figlio, quella morale e quel senso di giustizia che ho messo sempre prima di ogni cosa.
Le disgrazie sono dietro l’angolo, possono accadere. E quando accadono, soprattutto se il nostro comportamento le ha determinate, siamo chiamati ad assumerci le nostre responsabilità. Questo ho insegnato a mio figlio. Questo - sono certo - hanno insegnato quei genitori ai due irresponsabili che sono fuggiti davanti alle loro colpe.

E, come s’è lasciato andare il padre del ragazzo che guidava la moto, anch’io, sicuramente piangendo, avrei detto: ora, devi pagare.
Nicola Forcignanò

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