Kabul - Turbante nero, barbone dello stesso colore e tunica bianca, mullah Haji Abdul Salam Zaif, nel 2001 era l’ultimo ambasciatore talebano in Pakistan. L’emirato fondato da mullah Omar, il leader guercio degli studenti guerrieri, stava crollando sotto le bombe dei B 52 americani e l’avanzata dei mujaheddin del nord. Lui però annunciava riscosse impossibili. Dai panni di ambasciatore è passato a quelli di prigioniero a Guantanamo per tre anni e mezzo. Poi gli americani lo hanno rilasciato ed è rimasto un anno agli arresti domiciliari a Kabul. Oggi è libero di muoversi, ma non può espatriare. In questa intervista al Giornale parla del rapimento dell’inviato di Repubblica e auspica che alla conferenza internazionale sull’Afghanistan, voluta dal nostro governo, siano invitati anche i talebani.
Cosa pensa del rapimento di Daniele Mastrogiacomo?
«I giornalisti devono essere uomini liberi, che si muovono dove vogliono e incontrano chi vogliono per informare il mondo. Ai tempi dell’emirato talebano non accadevano queste cose. Per risolvere il problema invito i talebani a tenerlo in vita ed il governo a fare la sua parte. Non voglio che sia ucciso in Afghanistan».
Chi può decidere della sorte del nostro collega in ostaggio nella provincia di Helmand?
«I talebani hanno dei responsabili in ogni distretto. Penso che in questo caso sarà il responsabile della provincia, il cosiddetto governatore dei talebani, a decidere il suo destino».
Secondo lei uno scambio di prigionieri può risolvere la drammatica situazione?
«Tutto è possibile ma, oltre al governo afghano, anche gli americani devono essere d’accordo. Forse la soluzione è uno scambio fra il giornalista e i portavoce talebani catturati in Pakistan e venduti agli americani (oggi in carcere a Kabul, nda)».
Le truppe della comunità internazionale, a cominciare dagli italiani, devono restare o andarsene dall’Afghanistan?
«Gli stranieri che non rispettano il nostro paese, la nostra gente e non ci lasciano prendere decisioni liberamente devono andarsene. In caso contrario possono restare, ma prima gli afghani devono eleggere un buon governo e stabilire un termine per la presenza dei soldati stranieri».
Il ministro degli esteri italiano, Massimo D’Alema, vuole indire una conferenza internazionale sull’Afghanistan aperta a tutti. Pensa sia utile?
«Questa è una buona idea, perché oggi gli stranieri stanno da una parte sola in Afghanistan, che vuole sconfiggere l’altra parte. Le forze di pace dovrebbero essere neutrali non solo in Afghanistan, ma dappertutto. Se il governo italiano vuole organizzare una conferenza invitando tutte le parti per trovare una soluzione avrà successo, ma devono essere compresi anche i talebani che fanno parte di questo paese. Ignorarli sarebbe un errore».
Intende anche i rappresentanti dei talebani che combattono armi in pugno nel sud dell'Afghanistan?
«Io non sono con loro, ma se la comunità internazionale garantisse che non verranno catturati, trasferiti a Guantanamo o uccisi, penso che accetterebbero».
A lei piace ancora il mullah Omar?
«Non ho cambiato le mie idee e non ho mai ucciso nessuno. Questa era la mia regola durante l’Emirato (lo stato talebano in Afghanistan, nda)».
È possibile un compromesso fra il governo Karzai ed i talebani, che ponga fine al conflitto?
«Il problema non è dividersi i posti di governo. I talebani ormai combattono in tutto il paese, perché hanno perso il potere e vogliono riconquistarlo. In questo momento i talebani respingono il negoziato con il governo e gli americani non vogliono trattare con loro».
Lei ha scritto un libro sulla sua prigionia a Guantanamo. È vero che molti giovani del sud dopo averlo letto si sono arruolati nei talebani?
«Non l’ho scritto per ingrossare le loro file, ma per denunciare il mancato rispetto dei diritti umani da parte degli americani e premere per un trattamento migliore nei confronti dei prigionieri. Mi hanno costretto a mangiare, pregare e dormire nelle toilette. Quando volevano punirmi mancavano di rispetto al libro sacro (il Corano, nda) prendendolo a calci, scrivendoci sopra parolacce o buttandolo nel cesso».
Si combatte duramente nella provincia di Helmand.
«Quando si accende un fuoco in un punto, se c’è abbastanza legna, può espandersi anche da altre parti».
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